Un poeta di nome Sante. Note sulla poesia di Notarnicola scritte nel primo giorno di primavera

In memoria di Sante Notarnicola, poeta, scrittore e militante scomparso lo scorso 22 marzo a 83 anni. Un bellissimo ricordo-racconto dello scrittore Cristiano Armati per uscire dalla retorica mainstream che di Sante ha narrato solo il bandito (la banda Cavallero immortalata anche da Lizzani in “Banditi a Milano”) “salvato dalla poesia”. Lui che è stato una delle voci poetiche più possenti del secondo novecento italiano, ma a cui le patrie lettere non rendono omaggio. Mentre la sua poesia che parla degli uomini con la valigia di cartone e dietro alle sbarre, continuerà a raccontarci un’altra possibilità. Tanto più nella devastazione della pandemia …

22 marzo 2021. La primavera ha bussato alla porta soltanto da un giorno quando, di primo mattino, la notizia arriva insieme alle rondini che, di questo periodo, i bambini disegnano dopo la colazione su quaderni digitali, segregati nelle loro case, dietro gli schermi di un computer… sempre che siano abbastanza fortunati da aver fatto colazione e di averli, una casa e un computer.

22 marzo 2021. La primavera ha bussato alla porta soltanto da un giorno. Una data scelta in modo quasi banale per istituire l’ennesima “giornata”, quella dedicata alla poesia.

22 marzo 2021. Sante Notarnicola ha lasciato la carta e la penna sul comodino ed è andato via. Questa la notizia venuta a colpirmi, nel primo giorno di primavera, forte come uno schiaffo e allo stesso tempo leggera. Forte come uno schiaffo. Anzi, pesante come una montagna. Perché così ha contato la vita di Sante nel Novecento e oltre. Eppure leggera. Perché la storia che Sante ha macinato non si è affatto conclusa. E le poesie che ha scritto: i suoi libri, insieme ai valori irrinunciabili di profonda uguaglianza per i quali è stato disposto a dare tutto… parlano da soli e ci dicono che Sante resta più vivo che mai.

22 marzo 2021. Sante Notarnicola è morto mentre la primavera e la giornata internazionale della poesia sono trascorse soltanto da un giorno. E in una simile mattina. Una mattina in cui i bambini e le bambine mostrano i loro disegni a insegnanti lontani, attraverso lo schermo di un computer. La stessa mattina in cui arriva la notizia della morte di Sante Noternicola, cosa fanno le patrie lettere?
Forse tacciono per omaggiare il silenzio di una voce immensa come quella di Sante?
O, al contrario, fremono di rabbia?

Perché la pandemia in corso è precipitata inevitabilmente sulle spalle di chi ha sempre faticato ad arrivare alla fine del mese, lasciando un milione di persone (in maggioranza donne) senza lavoro e consegnando a bambini e bambine più numerosi degli stormi di rondini che tornano ai nidi il volto preoccupato e la domanda: «Perché sei a casa papà?»; «perché sei a casa mamma?».

Le mamme e i papà di quei bambini, molti dei quali perseguitati dagli sfratti che incombono ora che senza lavoro non si può pagare il mutuo o l’affitto, sono a casa perché hanno perso il lavoro: una condizione sempre più di massa, mascherata con l’istituzione di zone rosse che da un anno a questa parte non sono certo servite ad arginare i contagi, considerando che davvero poco o nulla è stato fatto in termini di investimenti pubblici per garantire, tra le altre cose, la possibilità di prendere in sicurezza un mezzo pubblico, di poter contare su ospedali all’altezza della situazione o di andare a scuola.

Il 22 marzo del 2021, però, le patrie lettere non tacciono e non fremono di rabbia. Non rendono omaggio alcuno a Sante Notarnicola, senza mezzi termini una delle voci poetiche più possenti del secondo novecento italiano. Né, le patrie lettere, hanno una parola per una scuola negletta, commissariata, smontata pezzo a pezzo e ora lasciata in balìa di ciò che con un orrendo acronimo è stata chiamata DAD.

Per le patrie lettere il 22 marzo del 2021 è stato tempo di chiacchiericcio e patetiche polemiche sulle esclusioni di libri e autori dalla finale del Premio Strega. Sì che chi ha a cuore i libri dovrebbe avere a cuore anche la scuola. Così come chi ha a cuore le Lettere è difficile che possa non conoscere Sante Notarnicola e quello che ha scritto: da L’evasione impossibile, un punto fermo della letteratura concentrazionaria di ogni tempo e paese, fino alle sue ultime raccolte di poesie.

Quelle stesse poesie a proposito delle quali Primo Levi, in un’antica corrispondenza con l’autore, ebbe a dire: «Belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis».

Gratis. Come il chiacchiericcio delle patrie lettere. Quel rumore di fondo che riempie i giornali, tracima dagli schermi televisivi e si impone all’attenzione degli utenti del web come uno strumento di distrazione di massa qualunque. Uno strumento che, è evidente, essendo l’antitesi della poesia non può neppure conoscere le poesie di Sante Notarnicola. Né è in grado, a causa del contenuto della sua opera, di confezionare per l’autore uno di quei vestiti tanto cari alla letteratura d’accatto. Il vestito del bandito-poeta. Del criminale sensibile alla cetra delle muse. Del rapinatore comunista “salvato” dalla scrittura.

Non sono in grado, le patrie lettere, di dire Poeta a Sante Notarnicola perché poi dovrebbero leggerle queste poesie. E citare il loro contenuto. E pensare che una prigione che brucia sia una festa che annuncia la possibilità di una società senza galere: la stessa che ora non conoscerebbe le lunghe file di disoccupati immortalati in coda per ricevere un pasto gratis accanto alla Statale di Milano. Cioè né più né meno la stessa ragione per cui Sante, insieme a tanti e a tante altre, era stato disposto a mettersi in gioco, finendo per affrontare a testa altissima lunghi anni di detenzione.

Ma le prigioni, in questo anno di pandemia, sono salite agli onori delle cronache solo per pochi giorni, macinando notizie confuse a fronte di quella che è stata una vera e propria strage: quattordici detenuti morti nel marzo del 2020, secondo le fonti ufficiali per aver fatto abuso di medicinali sottratti alle farmacie degli istituti. Un po’ come capitato a suo tempo a Stefano Cucchi, caduto dalle scale. O a Federico Aldrovandi, capace di lanciare il suo corpo addosso ai manganelli finendo per spezzarli.

Le poesie strazianti di cui parlava Primo Levi non sono state scritte da Sante Notarnicola nel marzo del 2020. Ma questo non impedisce loro di parlare ANCHE delle stragi di marzo. E questo non solo perché sono spesso votate al carcere e all’imperante disumanizzazione che si vive fuori e dentro le galere. Ma perché tutto, nella poesia di Sante Notarnicola, inizia da una valigia di cartone e in questa continua a essere contenuto, insieme ai suoi significati: «Venni dal Sud, / con la mia valigia di cartone», scriveva Sante. «Il padrone / gettò al volo cinquanta lire /al guardiano delle macchine: / “Tieni ragazzo, divertiti!” / Le cinquanta lire rotolarono / sull’asfalto fermandosi / vicino ad un tombino. / (…) Guardai la moneta / allungai il piede / spingendola nel buco» (Il guardiano delle macchine, 1970).

È, la valigia di cartone, l’emblema del movimento operaio del dopoguerra. La storia di una continua migrazione forzata, la realtà di uno sradicamento al servizio delle necessità produttive in grado di macinare profitti per pochi e miseria e morte per moltissimi. Una storia che, dai tempi in cui sulle case dei bravi proprietari degli appartamenti del Nord troneggiavano i cartelli «Non si affitta ai meridionali», non è affatto cambiata.

Basta chiedere al Mar Mediterraneo. E al cimitero nascosto sotto le sue onde. E al feroce sfruttamento che oggi assume le vesti del disastro ambientale, oltre che della guerra aperta. In Africa, in Asia, in America Latina: ovunque. Anche dalle nostre parti. Dove si spianano le montagne per dare da mangiare a treni utili solo alla mafia. E chi si oppone conosce prima il manganello e poi la galera, come accaduto – in questa generazione – a chi ha osato prendere parola contro la TAV…

Eppure questo è l’ambiente della poesia di Sante Notarnicola, che mai mancò, tra l’altro, di sostenere le lotte contro le grandi opere inutili e nocive. Versi che raccolgono il testimone di quella tradizione antiretorica che fu di Quasimodo e Montale. Ma che pure, da quel punto, rilanciano e vanno avanti. Perché il confine montaliano del «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» viene superato da Notarnicola con la stessa foga con la quale si scavalca il muro di un carcere, sospinti da quella voce collettiva che sa benissimo cosa vuole e che, in coro, grida: «Vogliamo tutto!».

E i volumi di un simile coro non possono che essere alti. Perché, scrisse Sante, la «fragilità» è «patrimonio / tutto borghese / la nostra prece / ha sfumature diverse / nella mente / precisi gli obiettivi» (A Mara, 1975).

Ecco. La dimensione collettiva propria alla tradizione del movimento operaio, consegnata alle bande giovanili che irrompono nella storia dalla rivolta di piazza Statuto in poi, che alimenta l’insubordinazione dell’operaio-massa e si fa coscienza di un proletariato prigioniero che scopre tra i dannati della Terra la pelle scura di fratelli e sorelle «con il sangue agli occhi». Quella stessa dimensione collettiva, incarnata dalla lotta di classe in tutte le sue stratificate forme, che, se ancora ai tempi di Brecht, costringeva a fare i conti con chi chiedeva chi avesse costruito Tebe dalle sette porte, ora – nel mondo delle patrie lettere – rappresenta una ragione di oblio, qualcosa di scomodo con cui è meglio non venire a contatto.

«Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento (…)», sembra dire a costoro Manlio Massole, un altro poeta che non troverete ricordato nelle patrie lettere. «Ma a noi è rimasto il figlio del falegname, nudo e insanguinato d’amore; (…) / Lottiamo contro la miseria e la servitù / ma la povertà ce la teniamo / non foss’altro che per distinguerci da voi, / preti e padroni» (Ai preti e ai padroni, 1976).

Perché si dice «a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio». Ma, come ricorda Sante: «Con questa / formula / per duemila / anni / m’hanno imbrogliato / Signore» (Sfogliando il Vangelo I, 1970).

Non ho la minima idea se Notarnicola e Massole si siano mai conosciuti. Se avessero letto l’uno i libri dell’altro. Certo, tutti e due sapevano, come lo sapeva Majakovskij, che «non è difficile, respirando mughetti / scrivere versi in qualche / villetta di campagna». Ma la tradizione negletta di cui stiamo parlando viene dal carcere di Notarnicola come dalla miniera di Massole e non certo da qualche villetta di campagna.

E non rappresenta una condizione isolata, al contrario: esprime ciò che gli uomini e le donne di tutto il mondo vivono in assoluta maggioranza tutti i giorni. Parla degli uomini e delle donne con la valigia di cartone, dei bambini e delle bambine senza casa, dei loro genitori disoccupati, dei poveri ammassati nelle carceri per gli innumerevoli reati della fame e di chi continua a ribellarsi allo stato di cose presente. Per questo Sante e le sue poesie non finiscono mai di dire ciò che hanno da dire. E continueranno a farlo. Fino alla vittoria. Nel primo giorno di una nuova primavera.