Una famiglia particolare. Il film di Clara Sereni e Stefano Rulli sul figlio Matteo

In occasione della scomparsa di Clara Sereni, pubblichiamo un’intervista alla scrittrice e al compagno Stefano Rulli dedicata al racconto del film, “Un silenzio particolare” (2004), in cui si erano messi in scena accanto al figlio Matteo, “perché per capire il disagio psichico bisogna saper andare al di là delle parole”…

Una sorta di Matti da slegare trent’anni dopo. Stavolta a raccontare l’universo del disagio mentale e soprattutto il patrimonio di ricchezza “della diversità” è una famiglia, la famiglia Rulli-Sereni: Rulli appunto, sua moglie Clara Sereni, scrittrice, e loro figlio Matteo di venticinque anni, che fin dalla nascita ha conosciuto le difficoltà della malattia mentale. Una famiglia diversa dal comune, insomma, che ha scelto di raccontarsi in Un silenzio particolare, film firmato da Stefano Rulli.

Nato dopo tre lunghi anni di gestazione, Un silenzio particolare è il racconto di quella che per la scrittrice e suo marito è la loro “piccola utopia concreta”: “La città del sole”, una fondazione che opera nell’ambito del disagio mentale anche attraverso un agriturismo a Perugia, aperto ai “diversi” e non.

È qui, infatti, che si dipana il racconto seguendo le esistenze dei tanti ospiti e soprattutto quella di Matteo e della sua famiglia. Una scelta questa che, sottolinea Stefano Rulli, non è stata facile. “Inizialmente – racconta – l’idea era quella semplicemente di filmare la vita dell’agriturismo. Poi a poco a poco Matteo, che era lì fuori campo, mi ha fatto capire col suo linguaggio di sguardi e di gesti più che di parole, di voler esserci, di essere disposto a raccontarsi. Del resto non avrei mai potuto fare questo film senza la sua disponibilità. A quel punto anch’io sono dovuto entrare in campo e quindi anche Clara. E da lì è nata l’idea di un diario di famiglia “diversa””.

Le riprese sono andate avanti dal settembre 2001 al giugno 2003. Risultato: cinquanta ore di materiale girato, ridotto poi al montaggio in un’ora e un quarto. Un lungo lavoro, delicatissimo quindi, che lo stesso Rulli riavvicina in qualche modo all'”antica” esperienza di Matti da slegare. Anche se lì si trattava di “altri” e qui della sua stessa famiglia, di Matteo, delle sue emozioni che già Daniele Segre aveva portato sullo schermo in Sto lavorando dove raccontava l’inserimento lavorativo del ragazzo.

“Allora – racconta Rulli – quando girammo Matti da slegare l’emozione più grande era vedere per la prima volta da vicino il disagio mentale. Ora forse la cosa più emozionante è stato raccontare qualcosa che hai dentro e riuscire a tirarlo fuori. C’è una grande vita, infatti, nell’esperienza di Matteo, non c’è solo il dolore. Lo raccontano i suoi gesti, i suoi sguardi. Perché per capire le altre culture e anche il disagio psichico bisogna saper andare al di là delle parole”.

Per questo è nato Un silenzio particolare. Per raccontare quel mondo. Le difficoltà di relazione ma anche la ricchezza che contiene. Un tema che lo sceneggiatore in coppia con Petraglia ha narrato anche ne Le chiavi di casa, di Gianni Amelio. Dove lo sguardo è puntato ancora una volta sul “diverso”, un ragazzo con “problemi motori e psichici” che si troverà a ricostruire un rapporto con un padre molto assente.

Un silenzio particolare, però, oltre ad essere un “documento di famiglia” tanto per “far guardare in modo diverso alla diversità e sentirla meno lontana”, come sottolinea ancora il regista, è anche nella volontà dei suoi protagonisti un atto necessario per non cancellare la memoria di tutto l’impegno speso da molti nell’ambito della malattia mentale e non solo.

“A chiedere oggi ad un giovane psichiatra chi fosse Basaglia – dice Clara Sereni – e quale la sua concretissima utopia di società nuova, si corrono seri rischi. E anche sulla scena politica la diversità come grimaldello di un altro mondo possibile gode generalmente di cattiva stampa”.

Per questo Un silenzio particolare appare tanto più necessario. Al punto da aver spinto i suoi autori a superare la riluttanza nel “mettersi in scena”. “Con la mia immagine ho da sempre un brutto rapporto – racconta Clara – persino nelle foto ufficiali sono sempre un po’ in fuga. Di Matteo ho scritto e parlato molto, direttamente e indirettamente: ma il filtro delle parole era una garanzia, un velino. Eppure le immagini quando sono buone immagini hanno una forza che le parole non riescono ad avere. Allora, consentire che si raccontasse per immagini una piccola utopia concreta che è insieme quella de “La città del sole” e quella della capacità di Matteo di imparare a vivere, è stata per così dire una scelta obbligata: perché la memoria non si cancelli”.

fonte l’Unità 2004


Gabriella Gallozzi

Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.


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