Quando Roma era dei “bulli”, prima di diventare Suburra

Col ritmo di un action movie, “La peggio gioventù” di Francesco Crispino, racconta la trasformazione antropologica della Capitale degli anni Sessanta e Settanta. Per dirla con Pasolini,”quel genocidio culturale” che da “bonacciona” l’avrebbe fatta diventare “criminale”, sanguinaria e collusa con ogni sorta di malaffare…

Incalzante come un action movie, minuzioso nelle ricostruzioni, “affettuoso” nella descrizione dei personaggi, il romanzo di Francesco Crispino, La peggio gioventù, rilegge con cura, in controluce, la storia “alta” e “bassa”, fissata nelle cronache dei giornali, della Roma degli anni 60 e 70. Esattamente gli anni della trasformazione antropologica, di quel “genocidio culturale” più volte rimarcato da Pier Paolo Pasolini, quella Roma che da “bonacciona”, luogo dei bulli di quartiere, diviene spietatamente “criminale”, sanguinaria e collusa con ogni sorta di infamante malaffare.
È anche un’indagine fin nell’intimo della Capitale, quella del libro, alla ricerca di un’anima nascosta, catacombale, e soprattutto di una “spiegazione” per una città così grande, sproporzionata, eterna eppure mutevole, affastellata ma inscalfibile, in cui si trova tutto ed il contrario di tutto, e dove ogni cosa sembra poter coesistere, in un equilibrio apparentemente disponibile ma in fin dei conti sempre mancante.
“Stupenda e misera città!” sussurra a proposito Chiara – una delle protagoniste – prendendo insospettabilmente in prestito un verso, un fulminante ossimoro di Pasolini, mentre vede tutta Roma dall’alto di un ponteggio su cui l’ha condotta un “malandrino” ambizioso, che ha già in se i tratti di una nuova genìa di delinquenti professionisti. Dall’impalcatura si vede proprio “tutta Roma”: vederla e volersela “prendere” è una tentazione reiterata, sfacciata, un invito ancestrale al dominio, una sorta di sindrome, cui le varie bande (le “batterie”) cedono, accettando una sfida che sembra essere posta direttamente da quella città così a portata di mano, che si è già fatta comandare da tanti ma non è mai stata di nessuno.
In una scrittura che Crispino già cadenza secondo le scene di un film, nella città che sta mutando alla svelta, attraversata sempre più di fretta, su moto veloci e auto sempre più potenti, la selvaggia lotta per il controllo del territorio, mette a confronto il “vecchio” e il “nuovo”: Sergio Maccarelli (un personaggio esistito davvero), il “mejo de Tormarancio”, ex pugile, piccolo boss di borgata, cuore nobile che all’occorrenza usa le maniere forti, sorpassato dai tempi ed ucciso in un agguato nel 1972, e Danilo Abbruciati, anche lui realmente esistito, capo dell’efferata “batteria” dei camaleonti, spregiudicato, figlio di un pugile, boxeur ma senza successo, quel successo che invece lo attende, come un predestinato, nelle varie declinazioni del crimine in cui si cimenterà.
Nel precipitato di storia, che unisce vite vere e inventate, spunti narrativi realistici e avvincenti si sovrappongono a fortunosi incroci nei quali, come innesti di repertorio, incappano i personaggi: appaiono così davanti ai nostri occhi Junio Valerio Borghese col suo tentato e pagliaccesco golpe, Jacques Berenguer ed Albert Bergamelli, del clan dei marsigliesi, si citano il massacro del Circeo, Ghira, e poi Renatino De Pedis col nascere della Banda della Magliana, il tutto in un gran crogiolo metropolitano che tutto fonde e confonde, baruffe di quartiere ed organizzazioni criminali, scazzottate e sparatorie; la via Veneto elegante del Jackie O’, ma anche Pippo Calò ed il suo elegante confino romano, in una bella casa ai Parioli che ha addirittura una delle prime tv a colori su cui scorrono le immagini del massacro di Settembre Nero, alle Olimpiadi di Monaco del 1972, e via via fino all’avvento delle droghe, alla politica, in una lunga narrazione che a perdifiato ci conduce idealmente nel clima di quel tragico 2 novembre del 1975 con l’omicidio di Pasolini.
In questo “palcoscenico” dai molti fondali si muovono personaggi che l’istinto di vivere e di dominare spinge ad animarsi in lotte sempre più cruente, senza rispetto di alcun “codice”, a sangue freddo, e che vengono raccontati così come sono, senza piglio pedagogico, con realismo attento.
Le citazioni “pasoliniane” sono implicite ed esplicite, Francesco Crispino se ne lascia accompagnare. E intanto ci racconta soprattutto una storia che unisce due epoche “lontanissime”, cominciata in un quartiere, circoscritto, conosciuto, e finita in una città, dilatata a dismisura, inesplorata ed inesplorabile.
Può essere allora, quello tratto da La peggio gioventù,  proprio il film che manca ancora nella “descrizione del passaggio” tra un “prima” e un “poi” nella già vasta filmografia accumulata sulla criminalità romana: il racconto di quel momento in cui è cambiata la geografia, sono cambiate le dimensioni, la velocità ha divorato tutto, l’industria del crimine ha soppiantato ogni ingenuo ras di quartiere, i coatti hanno indossato il vestito “di marca”, hanno smesso di fare a pugni ed hanno cominciato a sparare. La violenza, nelle sue varie e mortali coloriture, si è infine impossessata della città. Quella “gioventù” ha cambiato colore ed anima.