Joker, un levriero a fine corsa, nel rogo del neoliberismo. Oscar a Joaquin Phoenix

Joaquin Phoenix porta a casa il meratitatissimo Oscar per il suo “Joker”. Nel film di Todd Phillips veste i panni del celebre cattivo di Batman regalando al personaggio le sembianze di un levriero da corsa a fine carriera. Un potente studio sull’alienazione e sulla solitudine urbana i cui riferimenti sono nel lavoro di Alan Moore, il seminale Killing Joke dell’89 e più in generale i suoi lavori dell’epoca. La mancanza di una società, o di una comunità – ci dice Moore -, non significa libertà come sperato dagli ultraliberisti, bensì individualismo feroce e crudele, una miriade di solitudini impaurite sempre sull’orlo di lasciarsi trascinare in una qualche violenza insensata. Leone d’oro a Venezia 76 …

Arthur Fleck è il protagonista di questa storia. Un monumentale, incredibile Joaquin Phoenix gli regala le sembianze di un levriero da corsa a fine carriera, uno di quei whippet usurati dalle troppe gare: ossa in evidenza, muscoli sempre vicino allo spasmo e la frenesia tipica di chi gira a vuoto consumandosi senza sosta e senza poterlo impedire.

Cosa succede infatti quando si è in acqua e si ha paura di affogare? Ci si agita, si prova ad aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, persino a qualcosa che non c’è, e così facendo si consumano le preziose, ultime energie. In città tutti hanno l’aria di essere sul punto di affogare, egualmente impauriti e incattiviti, si sbracciano cercando un appiglio inesistente.

Gotham City è allo sbando, la spazzatura non raccolta da settimane ridisegna il profilo delle strade, i ratti banchettano come in un’incisione di Hogarth aggiornata ai nostri giorni, i negozi sull’orlo della bancarotta svendono tutto e la disoccupazione è alle stelle.

In questo contesto disastrato e oscuro, Arthur Fleck può contare su tre cose. La più importante è di gran lunga l’amatissima madre. Una donna anziana e malandata che lui accudisce con estrema dolcezza, assecondando le sue fissazioni e manie, in speciale modo il tentativo, fallimentare, di mettersi in contatto con Thomas Wayne, l’ uomo più ricco della città e probabile futuro sindaco, per cui lei lavorò in passato e da cui si aspetta un aiuto per risollevare la propria condizione e quella di suo figlio.

Altro elemento fondamentale nell’esistenza di Arthur Fleck è il sogno di diventare un famoso stand up comedian, una stella della comicità e della televisione, coronando in questo modo la profezia di sua madre, convinta che il suo destino sia quello di regalare risate e gioia al mondo intero.

La terza colonna su cui è poggiata l’intera esistenza di Arthur Fleck è un numero: sette. Sette sono i medicinali che Arthur assume settimanalmente per provare a tenere sotto controllo i propri disturbi mentali. Il dolore, lo definisce lui, il dolore di essere vivo.

“Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita”, scrive nel suo diario. Ed è infatti con un certo gusto per il paradosso più oscuro che sua madre, invece di chiamarlo Arthur, lo chiama Happy. Perché è terribilmente chiaro, nella vita di Arthur e di chi gli sta intorno la felicità può essere soltanto sognata, magari con l’aiuto delle distorsioni offerte dai narcotici e dalla televisione, mai davvero raggiunta e nemmeno avvicinata.

La ricerca della felicità, quella sì, esiste, è presente, però non assomiglia al tentativo di coronare le inclinazioni e le aspirazioni personali, ma ad una febbre, ad una crisi di astinenza: la felicità come la crisi d’astinenza per una droga che non si è nemmeno mai provata, soltanto desiderata.

Illusione e autoillusione, questi i due temi principali del bellissimo film di Todd Phillips, a cui si unisce un terzo elemento che al tempo stesso contiene e nega i due elementi precedentemente citati: la comunità.

Arthur Fleck infatti non sogna di diventare famoso per narcisismo, ma perché ha un disperato bisogno di sentirsi accettato dagli altri, di essere parte di qualcosa di più grande. Arthur coltiva l’illusione che le star della tv come Murray Franklin, il suo anchor man preferito, interpretato da Robert De Niro, forti dell’amore del pubblico saprebbero aiutarlo ad essere riconosciuto, compreso, e a sua volta amato.

Arthur ha bisogno di trovare una conferma della propria esistenza. È stanco di camminare come un fantasma, è stanco di essere maltrattato mentre lavora come clown per feste private, è stanco di dover spiare chi gli interessa (come la sua vicina di casa che pedina sino al lavoro).

Arthur ricerca la conferma della propria esistenza nell’amore e nell’interesse degli altri, ma non trova nulla, soltanto ascensori e corridoio deserti, persone voltate di spalle, fraintendimenti: la violenza bruciante del sogno che acceca senza scaldare. Arthur si ritrova circondato da un mondo in cui ciascuno combatte la propria piccola, sfiancante battaglia a testa bassa, e in cui i pochi che danno l’impressione di avercela fatta sfruttano il loro privilegio svilendolo, mortificano la fortuna con l’arroganza, sprecano le loro immense possibilità divertendosi con la brutalità.

Proprio dopo aver ucciso per autodifesa tre rappresentati della schiera dei “vincenti”, Arthur capisce di aver cercato conferme nella direzione sbagliata. L’amore, l’affetto e l’accettazione sono materie di studio infinitamente complesse ed esigenti. L’odio, invece, l’odio e il sangue possono affratellare nel giro di una notte. Arthur per la prima volta scopre di esistere per davvero, e ci riesce grazie ad un omicidio.

Questa terribile e incontestabile verità costringe altre bugie a mostrare il loro vero volto. Anche l’unica persona di cui Arthur si era sempre fidato, l’unica che gli avesse mai dato un po’ d’amore si rivela essere una bugiarda. Sua madre. Anche lei non ha fatto altro che mentirgli. Anche lei invece di proteggerlo e di aiutarlo, ha cercato soltanto di aiutare e proteggere se stessa. E quindi anche lei, persino lei deve comparire.

Gotham City è in fiamme. A darle fuoco sono state orde con indosso delle maschere da Clown. Sono i membri anonimi dell’esercito di Arthur, che a questo punto decide di sbarazzarsi del proprio nome – nient’altro che una ennesima bugia – e di diventare Joker. Il finale, toccante e straziante, vede Joker danzare nel mezzo di una immane rivolta di strada e poi in un ospedale psichiatrico, in fuga dagli infermieri dopo l’ennesima violenza, dopo l’ennesima battuta taciuta perché non sarebbe stata comunque capita. L’omicidio come gioco. La distruzione come spazio comune.

In molti hanno giustamente citato Taxi Driver parlando di questo film, perché anche Joker è tra le altre cose uno studio sull’alienazione e sulla solitudine urbana, ma io credo che i suoi riferimenti vadano ricercati con ancora più forza nel lavoro svolto da Alan Moore, il seminale Killing Joke dell’89 e più in generale i suoi lavori dell’epoca.

Margaret Thatcher nel 1987 pronunciò la famosa frase “There’s no such thing as society”, Moore con le sue storie cercò di ricordare a tutti che la mancanza di una società, o di una comunità, non significa libertà come sperato dagli ultraliberisti, bensì individualismo feroce e crudele, una miriade di solitudini impaurite sempre sull’orlo di lasciarsi trascinare in una qualche violenza insensata.

Il Joker di Todd Philip assomiglia ad uno Shiva che dopo aver subito una lunga serie di elettroshock sembra dirci: potevamo incontrarci in pace, nelle strade, potevamo conoscerci e amarci nella quiete, e invece eccoci qui, affratellati nelle fiamme e nelle esplosioni, uniti dal sangue e dalle urla che accompagnano il saccheggio.