Oscar: “Il figlio di Saul” miglior film straniero
L’opera prima rivelazione dell’ungherese Laszlo Nemes si aggiudica la statuetta. E torna in sala il 7 e l’8 marzo per Teodora. Un film magnifico e sconvolgente ispirato al testo “Des voix sous la cendre“, raccolta di testimonianze dei Sonderkommando del lager. Da non perdere…
A Cannes 2015 è stato incoronato col Grand Prix. Ai Golden Globe ha strappato quello per il miglior film straniero e ora il bis agli Oscar. E non poteva che andare così per Il figlio di Saul di Laszlo Nemes, folgorante opera prima di questo autore ungherese, neanche quarantenne – già allievo di Bela Tarr – dedicata all’inferno di Auschwitz, narrato però da un punto di vista del tutto particolare.
La “soggettiva”, infatti, è quello dei Sonderkommando, gli ebrei addetti alle camere a gas, che si occupavano – in cambio di momentanei “privilegi”, poiché venivano comunque eliminati a loro volta dopo due, tre mesi di “lavoro” – dell’indicibile catena di montaggio dello sterminio. La svestizione dei deportati, la loro rassicurazione con promesse di cibo caldo e doccia, l’ingresso nelle camere a gas, nel frattempo lo smistamento di tutti gli effetti personali, il trasporto dei cadaveri nei forni crematori e, infine, la pulizia accurata degli ambienti per non lasciare tracce.
Ad aver ispirato Laszlo Nemes è stato un libro, un testo molto particolare: Des voix sous la cendre, sconvolgente raccolta di testimonianze dei Sonderkommando di Auschwitz (pubblicata dal Memoriale della Shoah), sotterrate e nascoste prima della rivolta dell’ottobre 1944 e ritrovate anni dopo. In quelle pagine dell’orrore sono ricostruite, nel dettaglio, regole ed organizzazione del lager, vera fabbrica di morte, dove i nazisti chiamano i cadeveri “Stuck”, pezzi, i prigionieri sono solo numeri e i “tempi di produzione” serrati nell’obiettivo di arrivare alla soluzione finale, mentre l’Armata Rossa è alle porte di Cracovia.
Tutto questo ci racconta Il figlio di Saul, con uno stile personalissimo, claustrofobico, stretto in un obiettivo ridotto (40mm) per stare addosso al protagonista: Saul, col volto incredibile non di un attore professionista ma dello scrittore ungherese Geza Rohrig.
Lo seguiamo continuamente di spalle, muoversi nell’inferno del lager, coi campi lunghi sfocati, quasi a voler nascondere per pudore l’indicibile. Più che immagini rumori, urla, i colpi contro le porte chiuse delle camere a gas, gli ordini delle Ss gridati come sassate. Sbirciamo corpi ammassati, vestiti ammassati, tutto con ritmi frenetici. E nel mezzo, ad un tratto, il corpo di un ragazzino.
Saul riconosce suo figlio, o almeno ne è convinto. Sopravvissuto alla camera a gas, il ragazzo viene finito da un ufficiale medico e il suo corpo disposto per la “ricerca scientifica”. È qui che succede qualcosa, che per Saul scatta l’ossessione. O forse il suo riscatto, la sua ribellione: dare sepoltura a suo figlio, con la benedizione di un rabbino. L’orrore, la rivolta che i suo compagni stanno preparando e che lui mette a rischio, tutto passa in secondo piano.
Come un’Antigone dei nostri giorni Saul ha solo un obiettivo, ridare dignità alla morte dove non c’è più per la vita. In una corsa contro il tempo, mentre forni crematori e fosse comuni “lavorano” a pieno ritmo, Saul “risale controcorrente” l’inferno, trasportando le povere spoglie e in cerca di un rabbino. Fino alla fuga finale e al tragico epilogo. Da non perdere.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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