“Suffragette”, una lezione di storia da (ri) vedere…

In sala dal 3 marzo, distribuito da Bim – Cinema di Valerio De Paolis, in occasione dei 70 anni del primo voto delle donne in Italia avvenunto il 10 marzo nel 1946.  Il film di Sarah Gavron racconta le battaglie del movimento dal punto di vista di una giovane lavandaia. E in libreria esce l’autobiografia della loro leader: Emmeline Pankhurst…

Suffragette

 

 

Passione di donna. Anche, soprattutto, plurale, perché è grazie alla passione e al sacrificio di molte se oggi le donne hanno quei diritti e quell’autonomia negata e impensabile fino ai primi del Novecento. E a quella pagina di storia scritta col sangue ma tuttora in ombra, rende omaggio il film di Sarah Gavron, Suffragette.

Era l’appellativo che veniva dato alle donne inglesi che chiedevano libero accesso al voto, capeggiate dalla fiera Emmeline Pankhurst – la cui autobiografia, Suffragette, la mia storia, è pubblicata in italiano da Castelvecchi (2015) – e che fu assunto come nome di battaglia del movimento stesso. suffragette_ok_high

Gavron e la sceneggiatrice Abi Morgan attingono a Pankhurst, ma poi raccontano con gli occhi bassi di Maud, un’umile lavandaia che riassume nel suo personaggio la vita vessata della maggior parte delle donne dell’epoca.

Ne analizza il risveglio di coscienza, la fiamma ribelle che la infila nel tunnel di una liberazione a carissimo prezzo. La scelta però di riscaldare il messaggio sociale di fondo privilegiando uno sguardo intimo, riesce solo in parte perché quel messaggio è talmente urgente da travolgere l’andatura del film.

Suffragette si trasforma presto in un percorso a tappe prevedibili, nonostante riveli risvolti di quelle lotte ancora ignoti. A parte la repressione violenta di manifestanti pacifiche con le cariche e le manganellate della polizia (purtroppo vanno sempre di moda in ogni tempo), gli arresti immotivati e le umiliazioni – sorprende l’uso scientifico della schedatura delle sospette con pedinamenti e macchine fotografiche all’avanguardia, la manipolazione delle notizie sui giornali, l’orrore dell’alimentazione forzata nelle detenute che praticano lo sciopero della fame (una delle sequenze più potenti del film). Ma c’è anche l’addestramento a base di arti marziali delle suffragette che passano alle maniere forti – sabotaggi di cose e case, mai inflitte a esseri umani (anche qui, la differenza è donna).

Gavron maneggia con cura le inquadrature, stringendo il campo visivo quasi sempre a primi piani e mezzi busti, con un senso claustrofobico aperto solo nel dramma finale quando una delle attiviste invade la pista dell’ippodromo e si immola davanti agli obiettivi dei fotografi. Maud ha il viso ingenuo di Carey Mulligan, che si trasfigura più nell’intensa relazione col figlioletto che nei momenti di lotta.

Helena Bonham Carter incarna con piglio deciso il ruolo di Edith, battagliera moglie di un farmacista (che la appoggia incondizionatamente), mentre Meryl Streep si ritaglia un cammeo iconico e fuggevole nei panni di Emmeline Pankhurst. Intorno – immerse in una fotografia dai toni grigi e lividi, che asseconda la tonalità in minore del film -, una folla di donne di ogni estrazione, coro unito dalla sintonia segreta della sofferenza.

Film necessario, non solo per quanto racconta sulla lotta per ottenere il voto elettorale (nella civilissima Svizzera è stato concesso alle donne solo nel 1971, l’Arabia Saudita ancora ne discute…), ma per tutti i cambiamenti che ne sono derivati e che oggi dovremmo tornare a difendere con maggior zelo. Da vedere in compagnia per poi parlarne insieme.