Addio Daniele Segre, il cinema alla battaglia. Tra operai e “gioventù bruciata” senza perdere la tenerezza

È scomparso il 4 febbraio, prematuramente a 72 anni, Daniele Segre straordinario autore di cinema del reale. Grande narratore delle lotte operaie, delle realtà sociali più a rischio e marginali. Ha raccontato anche la chiusura de l’Unità in un film fiume. È stato docente di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e direttore didattico della sede Abruzzo, formando, stimatissimo, intere generazioni di documentaristi. I funerali a Torino, mercoledì 7 febbraio (ore 10) al campo terra del reparto israelitico del Cimitero Monumentale …

C’è un ricordo più di tanti altri che mi lega a Daniele Segre in queste ore di incredulità e sconcerto per la sua scomparsa improvvisa e prematura, a soli 72 anni. Quel luglio del 2000 quando, armato della sua videocamera, seguì passo passo tutte le tappe penose e piene di rabbia – almeno da parte di noi redattori – che portarono alla (prima) chiusura de l’Unità.

Via due macelli, Italia – Sinistra senza Unità, documentario fiume presentato in più di dieci puntate quotidiane alla 57esima Mostra del cinema di Venezia, poi ridotte ad un’ora è mezza, resta uno degli esempi più straordinari e simbolici del suo cinema. Cinema del reale, certamente, ma anche e soprattutto un “pronto soccorso dell’immagine” come gli piaceva definirlo, per “aiutare” dove c’era bisogno.

Nel caso de l’Unità i lavoratori che stavano perdendo il loro posto di lavoro, fra ristrutturazioni gestite in modalità antisindacale, assemblee e bugie, rassicurazioni di politici (l’ultima quella di D’Alema il giorno prima della chiusura) e l’occupazione della sede. In questo scenario Daniele, con lungimiranza, aveva capito che si stava consumando una delle tappe progressive che avrebbero portato alla fine della sinistra. Tanto che proprio quella sinistra, allora e per parecchi anni a seguire, non gli perdonò quel film che affondava il dito nelle piaghe e nelle contraddizioni di un partito in caduta libera d’identità.

Ma Daniele era così. Anzi era soprattutto questo: rigore, coraggio, radicalità e il caratteraccio di chi, chiedendo tanto a se stesso, lo pretende anche dagli altri. Con la sua casa di produzione, i Cammelli (perché “o sei un cammello o muori per strada”), ha sempre fatto il cinema che voleva, fuori dagli schemi, di rottura. Non senza sacrifici evidentemente, combattendo la censura del mercato, ma con quella coerenza e quell’etica che lo hanno accompagnato fin dagli inizi.

Gli anni ’70 a Torino, lui di Alessandria dove è nato l’8 febbraio 1952, a raccontare delle realtà giovanili più disagiate, dalle tifoserie alla droga (Perché droga, Ritratto di un piccolo spacciatore, Il potere dev’essere bianconero, Ragazzi di stadio). Poi negli ’80 lo sguardo all’universo trans della prostituzione (Vite da ballatoio), le scelte non omologate dei giovani (Testadura), l’emigrazione dal Sud (Andata e ritorno) e l’immigrazione in Italia (Diritto di cittadinanza). Come pure il disagio psichico a seguire (Non c’era una volta, Manila Paoloma bianca, Cose da matti), sentimenti e sessualità degli anziani (Quella certa età), l’AIDS (Come prima, più di prima, t’amerò), le stragi del sabato sera (Sei minuti all’alba), il mondo del carcere (Sbarre).

Le realtà più marginali, complesse e sommerse ci sono già. Il nuovo grande tassello nei ’90 sarà il mondo del lavoro di cui Daniele è stato uno dei più grandi narratori. Capace, appunto, di coglierlo nei momenti di emergenza. I minatori sardi della Carbonsulcis in lotta contro la chiusura da parte dell’Eni. Segre è lì, insieme a loro, fino a 400 metri sotto terra con la sua videocamera (Dinamite – Nuraxi Figus, Italia del ’94). Oppure in cima ai serbatoi di gas propano della fabbrica di batterie Scaini di Villacidro, ancora in Sardegna, occupati dai lavoratori, come ultimo tentativo disperato dopo tre anni di lotte (Asuba de su serbatoiu). O anche l’Enichem di Crotone, la battaglia degli operai e delle operaie per tenere in vita quel polo industriale in dismissione. Anche qui la videocamera di Daniele ne documenta maifestazioni e occupazioni (Crotone, Italia del 1993).

Ed ogni volta è un racconto senza compromessi, come quello durissimo sulle morti nei cantieri edili (Morire di lavoro), senza indulgenze nei confronti dei responsabili, dei padroni, come dei sindacati, anche se tanto cinema di Daniele Segre spesso ha avuto il suo imput proprio dalla CGIL. Daniele era un osso duro, l’abbiamo detto. Capace anche delle sperimentazioni più urticanti. Come lo squallore dei cessi pubblici (Mitraglia e il verme) dove un Caino e un Abele (Antonello Fassari e Stefano Corsi) ci mettono di fronte alla crudeltà del nostro presente. O ancora i teatrali e magnifici Vecchie, due donne che si raccontano attraverso un’unica inquadratura fissa e due straordinarie attrici: Barbara Valmorin e Maria Grazia Grassini. E Morituri, di nuovo l’inquadratura fissa e lunghi piani sequenza con tre donne che al cimitero ci parlano di vita.

Vita vissuta senza mai tirarsi indietro quella di Segre. Proprio perché guidato sempre da una sensibilità fuori dal comune. La testimonia, soprattutto, quella sua straordinaria serie di ritratti pieni di rispetto e umanità: Luciana Castellina, Michelangelo Pistoletto, Lisetta Carmi. E Morando Morandini, film recensito su queste pagine web proprio da Bruno Ugolini, anche lui immenso narratore del mondo operaio. I suoi articoli, le sue riflessioni ci mancano già da diversi anni. Lo sguardo sulla realtà di Daniele, la profondità e la spinta vitale del suo cinema ci mancheranno tantissimo già a partire da oggi.


Gabriella Gallozzi

Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e dei premi Bookciak, Azione! e Bookciak Legge. Prima per 26 anni a l'Unità.

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