Addio Bruno, comunista anticonformista dal cuore operaio

 

È morto la mattina del 3 agosto Bruno Ugolini, grande giornalista, comunista complicato e anima della redazione de “l’Unità”. Una vita a raccontare il sindacato e le fabbriche, che seppe descrivere sempre con lucidità e passione. Ha arricchito anche queste pagine web con la sua firma prestigiosa. La redazione si stringe attorno a Silvia e a Gherardo e alle loro famiglie. Giovedì 5 agosto alle 11 l’ultimo saluto al Tempietto Egizio del Cimitero del Verano.

Bruno apparteneva a un’altra generazione: non quella dei padri (anche politici) e neppure quella di noi figli. Era nato nel 1935, quando la guerra e la Resistenza erano finite aveva appena 10 anni. Ora se n’è andato e lascia per tutti un grande vuoto, molti di noi all’Unità lo consideravamo una sorta di fratello maggiore, forse uno zio (con la saggezza ma senza la iattanza dei padri).

Lui aveva iniziato a Milano in una redazione che aveva tanti protagonisti e tante firme. Poi quando l’asse del giornale si era spostato era arrivato nella redazione di Roma, nelle stanze serie che ospitavano la “sindacale”. Solo all’Unità il servizio economia e lavoro portava questo nome: era il sindacato il fulcro attorno a cui economia e lavoro giravano.

E lui era insieme il “notista politico” della Cgil e delle relazioni sindacali in anni di unità e di rotture. Frequentava Corso d’Italia ma aveva amici e buoni rapporti nella Cisl di Carniti (anzi, prima nella Fim di Carniti) come nella Uil di Benvenuto (anche qui verrebbe da dire nella Uilm di Benvenuto). Sì perché la sua casa prima ancora dei sindacati confederali erano quelli dei metalmeccanici. Vizio, di nascita per un bresciano come lui.

Ma raccontarlo solo come un conoscitore dei vertici sindacali sarebbe sbagliato e perfino depistante. Lui conosceva bene le fabbriche, gli operai, si appassionava alle loro storie, alle fabbriche, ai rapporti sociali che contenevano, ai conflitti che le animavano. Bruno fu tra i primissimi a comprendere a cavallo degli anni Sessanta che molte cose stavano per cambiare. Dal sindacato glorioso di Di Vittorio e poi a quello impegnato a resistere senza perdere i contatti con la realtà di Novella, stava venendo fuori un altro sindacato che faceva i conti con quello che si chiamava (anche nei convegni del Pci) il “neocapitalismo”. Da giornalista Bruno partecipa a questa scoperta, all’analisi delle trasformazioni e a quella che nel 68-69 si configurerà come una risposta operaia.

E qui la vita di Bruno Ugolini si intreccia in qualche modo a quella di un altro Bruno, Trentin. E Ugolini, dalle colonne dell’Unità per anni (talvolta anche con qualche sbuffo di insoddisfazione da parte dei direttori) racconterà le fabbriche e il loro cambiare, le lotte sindacali e la nascita di quello che si chiamerà un po’ leninisticamente il sindacato dei consigli. La nascita dei consigli di fabbrica – a cominciare da quelle metalmeccaniche – chiude la stagione delle “commissioni interne” (dove il problema più grande era di solito l’equilibrio tra le sigle sindacali) per aprirne una nuova fatta di protagonismo operaio e di capacità di leggere il proprio lavoro di fabbrica come una componente più complessiva dei rapporti di forza politici.

Riprendetevi i suoi articoli e ci ritroverete la storia di quel passaggio, anche se il giornale di quegli anni potrà sembrarvi ingessato, se al megafono per i conflitti sociali si contrappone una sordina per i conflitti politici interni. Sì perché quel passaggio non fu indolore: di mezzo c’era il giudizio sul capitalismo italiano, su quello che Amendola ancora nel 1962 chiamava un “capitalismo straccione” e di cui invece Trentin faceva emergere gli elementi innovativi che stavano spingendo il capitalismo italiano ad essere sempre più internazionalizzato. Non si tratta di differenti definizioni, ma proprio del ruolo che spettava a ciò che era altro dal capitalismo: dal Pci al “sindacato di classe”.

Bruno aveva fatto la sua scelta mentre nel Pci come nella Cgil quel conflitto non era ancora risolto. Il sindacato dei consigli stava diventando una realtà e travalicava anche “l’Avanguardia” dei metalmeccanici ma al tempo stesso l’asprezza della contraddizione capitalismo- socialismo (proprio mentre tutti e due vivevano una crisi non occasionale) apriva la strada ad analisi e scelte diverse.

Bruno Ugolini riuscì a raccontarci tutto questo, sulle colonne dell’Unità per tanti anni, e più direttamente in quelle interminabili conversazioni nei corridoi del giornale. Ecco, in questi quasi due anni di pandemia abbiamo visto i giornali trasformarsi in “macchine celibi”, con le redazioni svuotate e ognuno a lavorare a casa sua, con le riunioni del mattino fatte con Zoom: ognuno porta il suo “pezzo” (la parola che abbiamo sempre usato per definire un articolo ha assunto finalmente il suo significato originario) per ricomporre il giornale come fosse un puzzle pensato da un numero sempre più piccolo di persone e senza scambi “collaterali”. Le informazioni e le idee in un giornale hanno quasi sempre una direzione dal centro alla “periferia”, ma la periferia ha sempre mantenuto una fitta serie di relazioni e di scambi che facevano la ricchezza di ogni articolo, che buttavano nel gioco idee capaci di diventare comuni, che arricchivano ogni storia da raccontare con tante storie vissute e raccontate a fare da sottotesto.

In questo il ruolo di Bruno era fondamentale. Davanti ad una notizia stimolante la prima cosa era andare da lui per cercare una chiave di lettura, una interpretazione, un precedente con cui confrontarla. Se uno dovesse giudicare la carriera di Bruno col metro delle “promozioni” e dei ruoli formali occupati, vedrebbe più vuoti che pieni. Lui non si pensava come un “uomo macchina” ma come un battitore libero. Non vuol dire che si impegnasse poco, al contrario, ma preferiva scrivere e leggere piuttosto che ordinare e “passare” gli articoli.

Bruno era animato da una grande curiosità, le innovazioni, le tecnologie lo attiravano, anche i social lo avevano appassionato. Aveva una casa piena di libri, il computer sempre acceso. Era ironico e pronto alla battuta come un ragazzo, era un modello di come si potesse fare il giornalista all’Unità mettendo insieme militanza e anticonformismo.

Perdonate un ricordo personale. Bruno Ugolini conosceva bene mio padre (che per tanto tempo era stato un sindacalista in Cgil), si apprezzavano. Per questo per ricordarlo, ora che se n’è andato, mi viene da utilizzare un vezzo linguistico di mio padre. Per lui (si chiamava anche lui Bruno) esisteva la verità e poi esisteva la “verità vera”. In tempi di populismi potrebbe sembrare un modo di dire che piacerebbe ai complottisti. È vero il contrario: per lui la verità vera era una verità che incorporava un di più di verità, in cui le cose non sono “piatte” ma hanno tre dimensioni, anche quattro, dentro ogni cosa c’è una storia, dentro ogni azione una serie di cause e di conseguenze.

Ecco, Bruno Ugolini era fatto allo stesso modo, c’era sempre una verità vera da indagare e da raccontare se ci si riusciva. Un comunista complicato, in cui la complessità del mondo è una grande ricchezza. E in cui gli operai – quelli veri, non quelli idealizzati – avevano il grande pregio di essere più vicini alla realtà. Bruno era un intellettuale a tutto tondo, ma anche, almeno per un pezzo, un operaio. Quel pezzo era il cuore.


Roberto Roscani

Giornalista

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