Anche il western (urbano) è black. Un altro sguardo è possibile nel ghetto nero al cinema
Disponibile su Netflix “Concrete Cowboy” dell’esordiente Ricky Straub, ispirato alle pagine di “Ghetto Cowboy ” di Greg Neri, ancora inedito in Italia. In un sobborgo alla periferia nord di Philadelphia, si ambienta la vicenda di una comunità black di cowboy urbani, una realtà decisamente poco nota. Ricerche storiche hanno stimato che in America un cowboy su quattro fosse di colore, alla faccia della narrazione letteraria e filmica che ha fatto del western il genere etnicamente bianco per eccellenza. Uno sguardo sulla volontà di affermare che un altro mondo può essere possibile, almeno in quell’interstizio sociale…
C’è un effetto strano che si verifica in una società sempre più complessa e che si vuole omologata: più si amplia lo spettro dei modelli omogeneizzanti più si creano pieghe e interstizi dove si raccoglie un pulviscolo sociale ininfluente e invisibile ai macrosistemi.
Quel pulviscolo è tuttavia spesso composto da persone che fanno della propria marginalità un motivo di coesione identitaria e rivendicazione di dignità. Così quelle pieghe, gli interstizi, assumono la valenza di un Fort Apache da difendere dagli assalti di una modernità ottusamente vorace.
È il caso della storia raccontata in Concrete Cowboy, la pellicola diretta dall’esordiente Ricky Straub, presentata al Festival di Toronto 2020 e ora presente nel catalogo Netflix. Il film è l’adattamento cinematografico del romanzo Ghetto Cowboy di Greg Neri, ancora inedito in Italia.
Tra le stalle di Fletcher Street, sobborgo alla periferia nord di Philadelphia, si ambienta la vicenda di una comunità black di cowboy urbani, una realtà decisamente poco nota. Basta googolare il nome della strada per rendersene conto e per ritrovare persone che hanno interpretato sé stesse nel film.
Ricerche storiche hanno stimato che in America un cowboy su quattro fosse di colore, alla faccia della narrazione letteraria e filmica che ha fatto del western il genere etnicamente bianco per eccellenza. Uno dei cowboy del film arriva a sostenere che “persino Lone Ranger era nero!”.
È innegabile che nella filmografia western i neri sono sempre rappresentati appiedati, coltivano fagioli e altre verdure e se mai hanno un cavallo si tratta di un ronzino che tira un carretto o l’aratro. Ma quasi sempre si tratta di un mulo per coltivare i quaranta acri che spettavano agli schiavi liberati dopo la Guerra di Secessione.
Concrete Cowboy è un film con parecchi difetti ma col pregio di una buona dose di onestà. Qualcuno ha detto che qualche anno fa questo sarebbe stato un leggero teen movie mentre oggi se ne vuole fare un ambizioso film d’autore. Può essere, ma può starci anche un diverso angolo visuale: considerare la stretta vicenda del padre e del figlio come un dato secondario per privilegiare uno sguardo sulla volontà di affermare che un altro mondo può essere possibile, almeno in quell’interstizio sociale.
Infatti la storia che serve da pretesto è un po’ risaputa, retorica ed edulcorata ma l’indulgenza che si deve alle opere prime spinge al perdono riconoscendo invece il merito della divulgazione di un contesto. Ed infatti l’uso della macchina da presa, che si muove come in un western codificato, in più di un momento tende al documentaristico portando a chiedersi che meravigliosa opera avrebbe prodotto Les Blank, maestro nel genere del doc socio-antropologico con specializzazione in sottoculture, ma questo è un altro discorso.
Una madre stremata dall’incontrollabile inquietudine del figlio adolescente (Caleb McLaughlin) stipa le masserizie del ragazzo in due sacchi neri della spazzatura e guida di notte da Detroit a Philadelphia alla volta della casa del padre (Idris Elba) affinché se ne faccia carico. Il mondo “là fuori” è pericoloso: le gang, lo spaccio, gli speculatori immobiliari, la burocrazia. Solo la comunità e le stalle di Fletcher Street possono dare un senso alla vita del figlio come lo hanno dato al padre anni prima.
Un western contemporaneo che mescola l’inattualità e l’anacronismo di una scelta di vita di un bunch (per nulla wild) con tutti i miti e i riti della vita western, fuoco di bivacco serale e sgroppate coi cavalli nel vuoto urbano erboso compresi. Si potrebbe dire che gli stereotipi si sprecano ma non è proprio così: le sottoculture riproducono in modo fedele i codici e gli stilemi, anche nella perfetta consapevolezza del mondo che le circonda e del quale rifiutano gli incomprensibili diktat e le insensate velocità.
Del resto, per altri versi e con altri linguaggi, non sono gli stessi motivi e le stesse solidarietà a unire la tribù itinerante di Nomadland? E così tra birre e aneddoti da fuoco di bivacco in Fletcher Street da una tasca esce un’armonica ad accompagnare un blues intonato da uno dei vecchi urban cowboy al quale si aggancia e sovrappone uno dei giovani virando in un rap senza stacco, in un mixaggio perfetto.
Gino Delledonne
Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.
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