A proposito dell’Alligatore di Daniele Vicari. Due o tre cose da sapere su quello di Massimo Carlotto

Dal 18 novembre su RaiPlay e dal 25 novembre su Rai2, arriva L’Alligatore, serie tv Rai-Fandango con la supervisione artistica di Daniele Vicari (che firma la regia con Emanuele Scaringi). È la prima volta in tv del celebre personaggio creato dalla penna di Massimo Carlotto e protagonista di una serie di romanzi noir di successo internazionale (editi da e/o) che hanno riscritto i confini del genere. Un detective irregolare che riecheggia la biografia del suo autore e ci introduce nelle zone grigie in cui si incontrano crimine e potere…

Thomas Trabacchi nel ruolo di Rossini e Matteo Martari nei panni dell’Alligatore

L’alligatore è un rettile delle paludi. Ama rimestarsi nella melma ed è animale ambiguo per definizione. Non disdegna infatti di vivere a cavallo tra acqua e terraferma. C’è chi dice di averlo visto aggirarsi nelle fogne della sua città. C’è chi tende a fare distinzioni: esistono alligatori buoni ed alligatori cattivi. A quelli buoni si fa la pelle per farne borsette di lusso. Quelli cattivi ti sbranano.

Nel soprannome che si porta addosso, Marco Buratti, alias L’Alligatore, racchiude il senso del suo personaggio e del mondo in cui è immerso. Cantante blues e studente universitario, viene incriminato ingiustamente per un reato mai commesso (partecipazione a banda armata). Dopo aver scontato sette anni di carcere, l’uomo inizia a lavorare come investigatore privato, senza alcuna licenza, da irregolare, mettendo a frutto le conoscenze criminali maturate in prigione e muovendosi sul labile confine che passa tra la palude del mondo malavitoso e la terraferma di un’apparente placida città di provincia, Padova, il cosiddetto mondo dei “regolari”.

Un investigatore privato che indossa scarpe di pitone, ingolla litri di Calvados ed è ossessionato dall’idea di combattere l’ingiustizia perché l’ha subita sulla sua pelle. Al suo fianco, come tre moschettieri, Beniamino Rossini, gangster milanese ancorato alle solide regole del fuorilegge gentiluomo (il braccio armato del gruppo), e Max la Memoria, ex militante extraparlamentare, latitante, con un enorme archivio di controinformazione, come si sarebbe detto una volta, sulle attività illecite della città.

I tre, protagonisti di 9 romanzi e un graphic novel, fin dal ’95 si ritrovano invischiati in vicende in cui la distinzione tra prede e predatori è poco chiara, ma chiarissima è la loro linea di condotta: il rispetto di una serie di valori da banditi perbene, sulla falsariga che da Robin Hood arriva a Lupin, e che porta a schierarsi sempre con le vittime, anche contro il proprio interesse. Tanto che, spesso, l’unica forma di ricompensa per le indagini è la scoperta della verità.

Ma in un mondo dominato dall’opportunismo e dalla voracità, non basta stare dalla parte della ragione perché essa trionfi. E allora torna utile la doppia natura del protagonista, che rinnega la sopraffazione fine a sé stessa, tanto da rifiutarsi di usare armi persino nelle situazioni estreme (per fortuna c’è il suo socio Beniamino), ma che non si fa remore ad utilizzare gli stessi subdoli mezzi dei suoi avversari, pur di annientarli.

Ed è proprio per aver riscritto i confini del noir, trasformandolo in utile strumento di indagine politica, che Massimo Carlotto è tra i più apprezzati scrittori italiani, anche all’estero. Quasi a compensare la fine del giornalismo d’inchiesta, con le sue indagini di finzione Carlotto indaga la realtà della corruzione, degli intrecci tra crimine e potere. Con stile secco, da cronista, costruisce un doppio livello di lettura: da una parte l’indagine, con la sua giusta dose di omicidi, morbosità, sadismo. Dall’altra l’analisi del mondo criminale e delle sue commistioni con la politica, condotta attraverso i mezzi del miglior giornalismo d’inchiesta.

Il meccanismo di detection è solo un pretesto per passare in rassegna il campionario degli eventi più controversi degli ultimi anni, affondando a piene mani nella cronaca. Dalle infiltrazioni mafiosi nel Nord Est alle rapine in villa, dallo spaccio nelle basi Nato ai servizi segreti deviati. Tutte velate allusioni al reale, che a volte rasentano il limite della leggenda metropolitana. Ma Carlotto suggerisce che non sia così: davvero gli alligatori si aggirano nelle fogne delle nostre città. Sotto i nostri piedi, senza che noi ne sospettiamo l’esistenza. Oppure tra di noi, mascherati da una facciata rispettabile.

Oltre ai riferimenti alla cronaca, trapela il gusto per il racconto hard boiled e per l’universo cinematografico americano, che si manifesta nei continui rimandi al Marlowe di Chandler e a miti del noir hollywoodiano (Humphrey Bogart su tutti), e mediante l’uso di una serie di topoi tipici del genere (il bicchiere facile e la malinconia amorosa, ad esempio).

Ed è forse questo uno degli aspetti più interessanti della narrazione, che gioca consapevolmente con i cliché, inserendo il tutto in una vasta trama d’inchiesta politica. Una denuncia del malaffare, in chiave noir, che sembra fatta apposta per una trasposizione in tv o al cinema. E in effetti, l’affinità tra l’autore e lo schermo è dimostrata, oltre che dalla fiction in uscita, dai quattro film tratti dai suoi romanzi (Il fuggiasco, 2003; Arrivederci amore, ciao, 2006; Jimmy della collina, 2006; Badlapur, 2015) e dalle collaborazioni come sceneggiatore a due serie tv (Crimini, Rai2 e Real Criminal Minds, Rai4).

Ma le storie dell’Alligatore riecheggiano anche la biografia del suo autore. Il primo romanzo della serie, per esempio, è incentrato sull’uccisione di una donna di cui è stato ingiustamente accusato un ex compagno di carcere di Buratti. Un caso che richiama in maniera palese quello in cui fu coinvolto lo stesso Carlotto.

Lo scrittore, infatti, prima di dedicarsi ai suoi romanzi, era già noto alle cronache come protagonista di un oscuro “cold case” italiano. Studente 19enne a Padova – dove è nato nel 1956 -, legato a Lotta Continua, nel ‘76 viene incriminato dell’omicidio di Margherita Magello, studentessa 24enne che viveva nello stesso palazzo della sorella di Carlotto.

Lo scrittore, che si è sempre proclamato innocente, afferma di aver ritrovato la ragazza in punto di morte e di essere fuggito preso dal panico. Si consegnerà alla polizia la sera stessa, auto-accusandosi di omissione di soccorso. Da quel momento un susseguirsi senza fine di dubbi, assoluzioni e nuove condanne. Carlotto, alla vigilia della prima sentenza, si rifugia all’estero. Dopo tre anni di latitanza in Messico viene espulso e si costituisce al suo ritorno in Italia. In totale sconterà sei anni di prigione, fino alla grazia concessa nel ‘93 dal Presidente della Repubblica Scalfaro.

Una via crucis giudiziaria drammatica, durata 17 anni, che si conclude dopo sette processi, undici sentenze, e ben 86 giudici diversi: un record superato solo dall’analogo caso Sofri. Pesa fin dall’inizio il dubbio di una persecuzione legata alla sua militanza extraparlamentare nel clima arroventato degli anni di piombo, oltre alle perplessità sullo svolgimento delle indagini e dei processi. Tanto che una vasta schiera di intellettuali e personalità della politica si sono mobilitati nel tempo lanciando appelli in suo favore. Tra i tanti Jorge Amado, Nilde Iotti, Norberto Bobbio.

È evidente che il detective Marco Buratti, con la sua ossessione per la verità, sia l’alter ego dell’autore. Come Massimo Carlotto alla ricerca insaziabile di una giustizia che non può essere affidata alla polizia o ai magistrati, perché le collusioni tra mafia, politica e forze armate, nel mondo dei suoi romanzi, (ma anche nel nostro, suggerisce l’autore) sono all’ordine del giorno.

Per sondare gli abissi di questa Italia sommersa c’è bisogno di un antieroe come L’Alligatore, mezzo criminale, mezzo paladino. Uno capace di confrontarsi con gli altri predatori da pari a pari, e in grado anche di sbranare se necessario; ma solo per ottenere giustizia. Perché come afferma il detective l’unico modo di mettere a posto le cose è “rispettando le regole degli uomini liberi col cuore fuorilegge”.