De Kerangal, le coup de coeur è un libro
È “Riparare i viventi” della francese e premiatissima Maylis de Kerangal visto alla Mostra nell’adattamento di Katell Quillevéré. Un libro ipnotico e chirurgico allo stesso tempo che penetra nel dolore della perdita fino alla ricostruzione di corpo e anima, attraverso il trapianto del cuore di un ragazzo morto in un incidente. Da leggere tutto d’un fiato…
Come per tutti i grandi libri, leggendo Riparare i viventi ognuno porterà nel cuore un’esperienza assolutamente personale di questa storia. Scaverà un suo privatissimo percorso, febbrile come una talpa, incapace di chiudere le pagine e prendersi una pausa, o si lascerà trasportare, medusa a fior d’acqua, sull’onda di una narrazione ipnotica e chirurgica allo stesso tempo.
Lei, l’autrice, Maylis de Kerangal, francese di Le Havre, classe 1967, quattro figli e un discreto bottino di premi ad ogni titolo, l’ha definito la sua “chanson de geste”, un libro che ha dovuto scrivere per riparare se stessa dopo la perdita di persone molto care. Una battaglia, un assalto al dolore affrontato in un corpo a corpo d’altri tempi, fino a estirparlo dalla propria fibra, a trasudarlo dalla propria pelle.
Pubblicato da Feltrinelli nel 2015, e in Francia solo l’anno prima, Réparer les vivents è già approdato al grande schermo (distribuito in Italia da Academy Two), coproduzione franco-belga visto alla Mostra nella sezione Orizzonti, grazie a Katell Quillevéré, giovane e premiata regista e sceneggiatrice (Suzanne, Un poison violent) che ha affidato il ruolo della mater dolorosa-Marianne alla musa-moglie di Polanski, Emmanuelle Seigner e quello dell’infermiere-Lazzaro all’attore franco-algerino Tahar Rahim.
Prima di andare a vederlo, il consiglio spassionato è di leggere il libro e magari di scoprire anche un altro intrepido romanzo dedicato al tema come Nessundorma di Marina Mander (Mondadori). Perché non c’è solo una storia toccante e scottante, affidata ad un coro di personaggi difficili da dimenticare, ma de Kerangal, ancor più che nei suoi altri libri, affila qui la sua scrittura pastosa e insieme puntualissima fino a farne un bisturi.
E anche se penetra nelle ferite della perdita, se ci spinge dentro il nero della morte, sa espandere l’ossatura scarna della sua trama fino a ricostruire corpo e anima, sa raccontare l’osmosi chimica tra le emozioni e la fibra muscolare e sollevare l’individuale a ethos.
Dolore, emozioni, spregiudicatezza, rigore si fondono nelle pagine per farsi necessità, poesia e catarsi. Delle molte interpretazioni possibili, dall’epica alle deposizioni rinascimentali, quella teatrale (il titolo è preso dal Platonov di Cechov) è una delle letture privilegiate del romanzo, tanto che un adattamento per la scena è già stata presentata al Festival di Avignone dello scorso anno e sarà in tournée tutto il prossimo anno.
Tragedia greca: non solo per le unità aristoteliche, tra cui quella, cristallina, del tempo: 24 ore, dall’alba livida e ventosa in cui Chris, Simon e Johan s’incontrano per un’uscita a cercare il point break sulle tavole da surf, alle 5 e 49 in cui per Claire la vita ricomincia. Ma anche, e soprattutto, per la struttura assolutamente corale e, ancor di più, per il coraggio assoluto di affrontare temi che stanno all’oggi come la vendetta agli Atridi o la sepoltura dei morti ai tempi di Sofocle.
Infatti, che ne pensate del trapianto degli organi? Quante volte avete pensato realmente a questa possibilità? Se foste sospesi in quel limbo (cui rimanda il nome del protagonista perché in questo libro pure ogni nome è carico di significati e risonanze) in quella piega dell’universo che galleggia tra la vita e la morte, un luogo continuamente ridefinito dalla cultura e dalla medicina, donereste i vostri? Tutti, o solo alcuni? E quali? Il cuore, le cornee, i reni… E se un vostro caro, un figlio addirittura, fosse in coma irreversibile, cosa decideremmo di fare per lui, di lui?
Riparare i viventi comincia da qui, da Simon Limbres, 19 anni, voglia di tunnel nell’onda e di vita, che da quella mattinata adrenalinica non tornerà più a casa, schiantato contro il parabrezza del pullmino. Trauma cranico. Coma irreversibile. Il cervello di Simon è allagato di sangue, eppure il suo cuore batte ancora, i suoi polmoni respirano, i reni filtrano… Un tempo anche molto recente, prima del 1959, anno in cui la medicina decise altrimenti, Simon sarebbe stato clinicamente ancora vivo. Dopo quell’anno spartiacque, invece, indifferenti al cuore che pulsa e pompa, poiché la sua coscienza è spenta per sempre, poiché Simon “non pensa, dunque non è”, l’infermiere Thomas conclude il suo primo, delicatissimo incontro con i genitori di Simon, con una frase accorta, quasi neutra che è invece una bomba atomica, un detonatore, la fine del mondo: “Ci troviamo in un contesto in cui è possibile ipotizzare che Simon faccia dono dei suoi organi”.
Marianne, sua madre, era stata la prima ad accorrere all’ospedale, è lei il primo cerchio che parte dal sasso del corpo di Simon lanciato nello stagno. È lei che dovrà dirlo a suo padre, Sean, uomo solitario e sanguigno, di origine maori, che si strugge all’idea di aver trasfuso nel sangue di quel figlio amato in silenzio la passione per il mare, il vento, le tavole.
E dirlo poi alla sorellina piccola, ai vicini, ai genitori degli altri due ragazzi coinvolti nell’incidente e fortunosamente sopravvissuti, e infine alla fidanzata, Juliette, che proprio quella mattina l’aveva lasciato andare col broncio, incapace di rassegnarsi all’idea di arrivare sempre seconda, quando in gara correvano lei e il trio del surf. E mentre, insieme, Marianne e Sean precipitano nell’inferno dello strazio assoluto, davanti alla linea nera del per sempre, mentre Simon sta perdendo il suo corpo per diventare ricordo, davanti a loro si materializza l’infermiere Thomas, che di mestiere guida e sorregge chi a quella circospetta frase dice, “E sia”.
Da qui il libro riparte, dal fondo senza ritorno della perdita, in un accurato resoconto medico del trapianto, ecco balugina una luce: dalla terra nera che accoglie come un sudario Simon germina Claire, traduttrice, cinquantenne, cardiopatica, una sequenza di giornate senza scale e senza sforzi ridotta all’attesa di uno squillo, della chiamata, del dono. Sarà lei a ricevere il cuore di Simon.
E mentre la sua vita riparte, noi restiamo ad interrogarci sulle increspature più esterne sollevate dal sasso nel lago. Sul senso del cuore, simbolo assoluto e indiscusso della nostra umanità, “scatola nera” del nostro vivere, sentire, amare, trepidare, affrontare, e sugli orizzonti ancora oscuramente inesplorati della nostra cultura, di una scienza che il cuore l’ha derubricato per far coincidere la vita tutta con le nostre funzioni cerebrali. “Deposizione del cuore e consacrazione del cervello – un colpo di stato simbolico, una rivoluzione”, dice l’autrice. Ma questo, c’è da scommetterci, non è l’inizio.
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