Buon 25 aprile con “Bella Ciao”. Storia doc di quella canzoncina che va in giro per il mondo contro ogni fascismo

Torna in sala il 24, 25, 26 aprile (per I Wonder Pictures) “Bella Ciao”, documentario di Giulia Giapponesi sullo storico canto partigiano che i partigiani, però, hanno scoperto a Resistenza finita. Storie, origini e misteri di un inno alla libertà che ancora oggi si ostina a girare il mondo senza visti e senza passaporto, da Mossul a Hong Kong “ovunque si viva una privazione di libertà”, come dice Vinicio Capossela. Qui i cinema dove vederlo …

 

“È come un salvavita che scatta ovunque si viva una privazione di libertà”: lo dice Vinicio Capossela in apertura di un documentario, Bella Ciao, che riserva molte sorprese e una discreta quantità di emozioni, tutt’altro che nostalgiche.

Diretto da Giulia Giapponesi e con il contributo di Andrea Romeo come produttore creativo, è un documentario che guardi come un film, molti film anzi, perché molte e incredibili sono le storie, le ramificazioni e le leggende legate alla più nota e orecchiabile canzone che siamo soliti collegare alla Resistenza e alla lotta partigiana.

A parte quelle due paroline in italiano che nessuno si azzarda a modificare, Bella Ciao è in realtà un canto “cittadino del mondo”, non solo e non tanto perché una serie-fenomeno ispanica come La Casa di Carta l’ha adottato come inno di rivolta.

È un vecchio tronco che ha messo radici e germogli ovunque, sulle ali del web. Rimbalza da video pirata diventati virali, in tutte le lingue e in tutte le latitudini, da Mossul a Hong Kong, ovunque i giovani e i meno giovani scendano in piazza contro forze di occupazione e regimi liberticidi.

“È soprattutto un canto antifascista”, ricorda Capossela, che l’ha rilanciato durante il lockdown collegandosi con un amico greco, musicista di Rebetiko. Oggi risuona in e per l’Ucraina: anche Carla Bruni ha messo in rete una cover, a serio rischio inflazione. Fortunatamente, fuori tempo massimo. Fortunatamente per il film.

Detta così, sembra una full immersion nella retorica. Invece no. C’è la storia di una ragazza turca arrestata e processata perché il 20 maggio 2020 dagli altoparlanti delle moschee di Smirne erano esplose le note di Bella Ciao. La sua colpa: aveva apprezzato via social un blitz musicale “terrorista e blasfemo”, secondo le autorità.

Ci sono i giovani della resistenza curda e i video clandestini irakeni. Ci sono i vecchi partigiani, che non ricordano di averla mai cantata, ma l’hanno amata grazie a Yves Montand. Ci sono band come i cileni Quilapayùn (quelli di El Pueblo Unido) e gli italiani Modena City Ramblers che non potevano scendere dal palco senza intonarla, anche quando glielo vietavano.

Le origini sono controverse, hanno intrigato e ancora fanno discutere fior di ricercatori: ma è irrilevante, tutto sommato. Chi scrive in gioventù ha amato e cantato con passione il repertorio di tradizione popolare del Nuovo Canzoniere Italiano. Il primo, leggendario, spettacolo, che debuttò al Festival di Spoleto nel 1964, si intitolava proprio Bella Ciao. La chiassata di due militari in platea, che protestavano per un verso dell’antimilitarista Gorizia (“Maledetti signori ufficiali/ che la guerra l’avete voluta”), fu provvidenziale: promosse involontariamente un tour memorabile e trionfale.

Noto per pura malizia che tra i vari frammenti ospitati dal film l’impegnata Milva sbagliava le parole del testo. So che se fosse ancora tra noi mi risponderebbe che Carla Bruni su Instagram ne sbaglia parecchie di più.

Mancando però certezze definitive riguardo a questa canzoncina – quasi banale ma potentissima – che si ostina a girare il mondo senza visti e senza passaporto, personalmente preferisco continuare a pensare che il suo vero atto di nascita sia la versione nostrana e ruspante, lenta e struggente, che Giovanna Daffini Carpi, ex mondina, proponeva col Nuovo Canzoniere Italiano. Un canto delle risaie, di donne, di lavoro e di fatica: sì, un blues.

Fonte Huffington Post