L’opera mondo di Paolo Taviani. “Leonora Addio” dall’11 novembre su Netflix

Arriva su Netflix dall’11 novembre “Leonora Addio” il nuovo film di Paolo Taviani che firma per la prima volta da solo dopo la scomparsa del fratello Vittorio. Un’opera mondo in cui Pirandello fa da filo conduttore a una struggente riflessione sull’esistenza e il suo grottesco, la vecchiaia, l’arte. Un grande omaggio al cinema dei maestri del Neorealismo attraverso un sublime lavoro di montaggio (firmato come sempre da Roberto Perpignani) tra i capolavori di un tempo e lo sguardo dello stesso autore …

È un’opera mondo Leonora Addio. Quasi più pirandelliana dello stesso Pirandello a cui attinge e reinventa. Una riflessione da lasciare senza fiato sulla vecchiaia e sull’esistenza. Uno squarcio profondo sulla realtà (e il suo grottesco). Quella stessa realtà che così a cuore aperto ha saputo narrare il Neorealismo, qui celebrato e ricreato a memoria di uno spettacolo (cinema o teatro che sia) dove ciascuno a suo modo calca il palcoscenico dell’esistenza.

E Berlino applaude. A dieci anni dall’Orso d’oro per lo schakespeariano e carcerario Cesare deve morire, la Berlinale s’inchina nuovamente al cinema dei fratelli Taviani. Perché sì, anche se Vittorio se n’è andato nel 2018, ed ora è solo Paolo a firmare la regia, Leonora Addio è il perfetto e coerente coronamento di un percorso artistico (e politico) compiuto in coppia per sessant’anni dai due cineasti di San Miniato.

Quella dedica iniziale “a mio fratello Vittorio” è difatti il primo colpo al cuore di una lunga serie. E il lasciapassare nella loro poetica che nell’opera pirandelliana ha trovato un faro, al di là degli espliciti Kaos (1984) eTu ridi (1998). Qui i Taviani si spingono oltre (il soggetto appartiene a entrambi e risale agli anni di Kaos) e inventano a loro volta una “novella” nata dalla cronaca che, seppure già narrata da grandi autori, Camilleri in primis, acquista un respiro di altra portata.

È quella delle ceneri di Pirandello: tumulate al cimitero del Verano alla sua morte nel ’36, in pieno fascismo e poi, dieci anni dopo a guerra finita, estratte per una nuova sepoltura nella sua Sicilia natale dove, però, sono passati altri quindici anni prima della sepoltura definita nella tomba “monumentale”. Nonostante il drammaturgo di Girgenti avesse lasciato opposte volontà che comprendevano l’assoluto silenzio sulla sua scomparsa, con tanto di ceneri disperse per non lasciare nessuna traccia di sè.

Il rocambolesco (e grottesco) viaggio delle ceneri di Pirandello da Roma ad Agrigento (accompagnate da un sorprendentente Fabrizio Ferracane) diventa allora per Paolo Taviani l’occasione per un ulteriore viaggio sul treno della storia, dal fascismo alla Resistenza e alla nuova occupazione dell’Italia col piano Marchal (e De Gasperi appena rientrato dagli States). Sul filo della memoria di spettatore dei capolavori del Neorealismo (da Rossellini a De Sica) e di autore che a quella famiglia dichiara la sua appartenza, interrogandosi a sua volta sull’essere padre e sulla sorpresa di avere figli (cinematografici?) e sul cruccio di vederli invecchiare.

Struggente è l’immagine di (repertorio) Pirandello al momento del Nobel mentre attraverso la voce fuori campo – meravigliosa – di Roberto Herlitzka ci ricorda come sia stato triste. “Mi sento tanto solo. Il dolce della gloria non può compensare l’amaro di quanto è costata”. Quanta amarezza c’è poi in quell’Italia che dalle piaghe della guerra fa fatica ad uscire. L’Italia dei reduci, della povera gente e degli immigrati, soprattutto. A loro il drammaturgo siciliano dedica la sua ultima, straziante, novella a pochi mesi dalla sua morte. È “Il chiodo” nata da un fatto di cronaca accaduto nella Brooklyn degli anni Trenta e che Paolo Taviani mette in scena a chiusura del film. È un atto insensato, tragico, frutto a sua volta di un dolore subito: l’omicidio di una ragazzina da parte di un ragazzino siciliano strappato – letteralmente – dalle braccia della madre e portato oltreoceano a lavorare in un ristorante. Una tragedia che nessuno è in grado di spiegare. Come spesso è la vita.

Paolo Taviani costruisce un film puzzle, stratificato, sviluppato nel corso di quasi due anni, tra aggiunte e sottrazioni (come la Leonora del titolo, protagonista di un’altra novella venuta meno nell’ultima versione). E dove, soprattutto, il montaggio sublime di Roberto Perpignani (da sempre complice della coppia di autori) mette in dialogo e a confronto il cinema di ieri (oltre a De Sica e Rossellini anche Lattuada, Zurlini, Vergano, Antonioni) con il suo sguardo di oggi. Un confronto rche regge in pieno: potente è il bianco e nero (Paolo Carnera alla fotografia), folgoranti certe inquadrature (tra la lezione sovietica e il realismo poetico francese), emozionante il lavoro sui volti e sui corpi degli interpreti (Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker, Claudio Bigagli) resi perfettamente d’antan (i costumi come sempre di Lina Nerli Taviani), con buona pace per tanto cinema italiano che nelle ricostruzioni d’epoca impiega attrici al botox e attori-tronisti.

A quasi 91 anni (li compie il prossimo 8 novembre) Paolo Taviani si dimostra il più giovane degli autori italiani, in buona compagnia con Roberto Perpignani che di anni ne ha 80. Il film termina con un applauso a ricordarci che siamo di fronte a un palcoscenico. Quello della vita, dove siamo tutti interpreti. Come ci suggeriscono gli stessi attori di Pirandello al suo grottesco funerale in Sicilia in cui gli unici a saperne ridere e far ridere sono i bambini. I nostri di applausi a scena aperta vanno sicuramente a quei due ragazzini del regista e del suo montatore. Leonora Addio (prodotto da Donatella Palermo, con RaiCinema, Stemal Entertainment, Cinemaundici e Luce Cinecittà) arriverà nelle sale con 01 il 17 febbraio. Non perdetelo.