Bob senza i tanti Dylan. Arriva al cinema “A Complete Unknown”
In sala dal 23 gennaio (per Searchlight Pictures) “A Complete Unknown” di James Mangold, l’atteso film basato sulla biografia di Bob Dylan dal libro del critico musicale americano Elijah Wald, “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica” che Vallardi Editore porta nuovamente in libreria. Con Timothée Chalamet nei panni del menestrello di Duluth il film si limita ad una lettura unidimensionale di un autore dalle infinite sfaccettature e mai uguale a sè stesso. L’interprete dal canto suo ce la mette tutta …
Bob Dylan. Tanti Bob Dylan. Come sa bene chiunque abbia visto i suoi concerti, non ne esiste solo uno. I suoi tour, i suoi spettacoli non si somigliano mai, sempre uno diverso dall’altro. Di più: mai la stessa versione dello stesso brano. Mai lo stesso Dylan anche nello stesso concerto: può essere indolente, elettrico, poetico, romantico, ribelle. O tutto questo insieme, un Dylan dopo l’altro.
Impossibile ridurlo ad uno, insomma, ad una sola immagine. Cosa che invece prova a fare l’ultimo biopic dedicato al menestrello di Duluth, l’ultimo di una lunghissima serie: A Complete Unknown del newyorkese James Mangold. Che è già campione di incassi negli Stati Uniti. Un successo dove – ovviamente – pesa soprattutto la presenza di Timothée Chalamet nel ruolo del protagonista ma che rivela indubbiamente anche l’interesse dell’America per la sua storia musicale.
Una storia difficile da raccontare, però, quella dei fermenti musicali negli States negli anni ’60, poco prima e durante la prima contestazione giovanile, i fermenti di una ribellione nei costumi prima ancora che politica. Difficile da raccontare per il contesto ed anche per il personaggio.
Una storia che il film volutamente racconta in parte. La pellicola è tratta infatti dal libro di Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica (che torna in libreria con Vallardi Editore). Una storia già sviscerata, analizzata in ogni dettaglio, la storia che porta quello che era già diventato un’icona della scena musicale folk ad approdare alle sonorità elettriche. Alle ballate rock. Cambiamento che svela al suo pubblico nel difficile concerto di Newport, nel’65, dove deve scontrarsi con i fischi e la contestazione dei “duri” sostenitori del folk puro. Acustico.
Così almeno lo racconta il film, anche se il suo passaggio all’elettrico, l’album della svolta, Bringing It All Back Home, era già stato pubblicato quattro mesi prima del concerto al Newport Folk Festival.
Ma la licenzia cinematografica cambia poco la sostanza della trasformazione. Il cambiamento di un ragazzo che approda nel ’61 a New York col desiderio di conoscere Woody Guthrie, il cantastorie degli ultimi, dei migranti, dei lavoratori e degli schiavi, che ormai sta spegnendosi all’ospedale. Lo conosce, così come conosce Pete Seeger (col volto di Edward Norton), l’altro folksinger, il cui banjo ha fatto da colonna sonora alle battaglie sociali di quegli anni.
Ed i due immediatamente si innamorano del giovanissimo Dylan. Della musica che scrive, dei suoi testi. E con “sponsor” così altisonanti, il giovane Bob diventa immediatamente una star. Tanto più nei circuiti alternativi del Greenwich Village.
Un circuito che nel film appare però molto, molto limitato. C’è Dylan, Dylan e basta. Il Caffè Wha, il Gerde’s Folk e tutti gli altri semplicemente spariti. Così come non ci sono le voci, le tante voci che già esistevano prima di Dylan, che l’hanno influenzato e hanno continuato ad esistere: da Phil Ocs a Joni Mitchell.
Qui invece c’è solo Dylan. Dylan e Joan Baez, l’altra splendida voce di quegli anni. Il film si sofferma sul loro rapporto, sul loro difficilissimo rapporto umano e professionale. Che però, neanche nei dialoghi più riusciti, riesce a svelare il “mistero Dylan”. Una complessità, beninteso, che lo stesso Bob ha sempre alimentato, come parte integrante del suo personaggio. In un paese – sono le parole che usa Timothée Chalamet – dove non conta la propria storia personale ma conta la biografia che uno vuole raccontare.
Così questo Dylan, il Dylan dell’ultimo biopic, non spiega perché si inventa un’adolescenza difficile, addirittura al seguito di un circo. Non spiega perché non vuole mai presentarsi col suo vero nome, Robert Zimmerman. Non spiega nulla. Tanto che la sua compagna, Sylvie Russo sfogliando un album fotografico gli chiede: “Ma tu davvero chi sei?”.
La sua compagna, si diceva. Nel film, appunto, si chiama Sylvie Russo, l’unico personaggio con un nome di fantasia. Perché lo stesso Dylan, leggendo la sceneggiatura ha chiesto e preteso che il vero nome della ragazza, Suze Rotolo, fosse cambiato.
E forse è stato bene così. Perché Sylvie Russo in A Complete Unknown non ci fa una bella figura. Ruolo defilato, un po’ amica, un po’ sorella, un po’ mancata moglie (si mette a piangere ascoltando The Times They Are Changing pensando che quell’invito in note a cambiare il mondo fosse anche la pietra tombale del loro rapporto). Diversa, tanto diversa invece dal ruolo che in quegli anni newyorkesi di Dylan ebbe la vera Suze Rotolo, come ha raccontato benissimo Eileen Jones su Jacobin: fu lei, figlia di un dirigente del partito comunista Usa, in prima fila in tutte le battaglie anti razziste di quegli anni, protagonista dei primi movimenti universitari, ad introdurlo negli ambienti della cultura alternativa.
Ambienti che hanno continuato a restare sullo sfondo per tutto il film. Incentrato invece come un riflettore sul volto di Timothée Chalamet, che comunque fa bene la sua parte. Sforzandosi, per quel che può, anche di fare un po’ la voce nasale. Riflettori puntati solo sul racconto di come Dylan – questo Dylan – abbia combattuto, si sia lacerato per rompere con la vecchia guardia del folk americano. Che poteva continuare a cantare di poveri ed emarginati ma ormai sembrava diventato una sorta di apparato burocratico. James Mangold la legge così quella svolta. Un Dylan in questo trasgressivo, diverso. Ingovernabile.
Un Dylan, un pezzo di Dylan che nel periodo analizzato ci ha regalato tanta parte dei suoi capolavori. Che però non racconta tutti i Dylan. Dopo quel ’65, ce ne sono stati tantissimi altri, spesso contraddittori, a tratti anche irritanti. E poi di nuovo entusiasmanti. Forse semplicemente perché Dylan non può esser ristretto ad una categoria. Neanche agli esordi. O ancora più semplicemente perché a Dylan fa comodo non esser conosciuto.
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