Camminando (nel caos) con l’uomo imperfetto. Il doc-testamento di Jørgen Leth al Biografilm
Presentato in anteprima italiana al BiografilmFest, il doc “I Walk”, del regista e scrittore danese Jørgen Leth. È il risultato di un lungo processo di elaborazione del tragico terremoto del 2010 ad Haiti, vissuto in prima persona dall’autore. Ma è anche, e soprattutto, una riflessione inquieta e personale sullo scorrere del tempo e le fragilità della vecchiaia: dove l’artista e l’uomo si espongono radicalmente, nel bene e nel male, per (tornare a) camminare e (quindi) agire creativamente nel caos dell’esistenza…
Nel bianco neutro, luminoso e surreale che circondava l’uomo e la donna di The Perfect Human (1967), il più noto film di Jørgen Leth, si apre anche il nuovo lungometraggio del regista e scrittore danese, I Walk (2019, in anteprima online l’11 giugno per il BiografilmFest): stavolta, cinquant’anni dopo, con lo stesso Leth, ultraottantenne “umano imperfetto” (così si era definito nella sua discussa autobiografia), disteso in un macchinario per la risonanza magnetica.
La voce over dell’autore-regista-protagonista si confessa dunque nelle sue nuove fragilità di vecchio che quasi non riconosce il proprio corpo indebolito. «Non sono più riuscito a camminare dopo il terremoto». Quello, terribile, del 2010 ad Haiti, che devasta la casa dell’autore e lo mette di fronte al demone di una caducità che rompe ogni illusione di stasi nel proprio presente (e passato).
Ed è, in primo luogo, un film sui movimenti tellurici del tempo, I Walk. Quasi dieci anni di lavorazione, partendo dalle immagini girate dal regista con l’iPhone a cavallo del sisma. Un «testamento», lo ha definito Leth nell’intervista a margine della “proiezione” al BiografilmFest: anche se di fermarsi, come dimostra quest’opera sin dal titolo, l’autore non ha nessuna intenzione. La posta in gioco, semmai, è (re)imparare a camminare nel vortice caotico della vita, ritagliandosi, tra gli spazi che il tempo dissolve e ricrea, i ritmi e le misure di un gesto creativo cui non si vuole, malgrado tutto, rinunciare.
Leth cammina, perciò: con la fatica di chi deve concentrarsi nel sollevare ogni volta ciascun piede per non cadere e una lentezza in contrasto con la frenesia delle immagini frammentarie, ora simboliche ora (crudamente) concrete, del terremoto e delle sue conseguenze. E nella stessa dialettica di corporalità e astrazione lirica si articola il viaggio-film del regista (dopo il congedo dall’abitazione in macerie), accompagnato dal figlio Asger (ispiratore del documentario) e dal collaboratore alla fotografia (e, con Jacob Tuesen, al montaggio) Tómas Gislason: la tappa chiave è nella giungla del Laos, perché «una giungla è il caos più concentrato che ci sia».
Ma il caos maggiormente emblematico è quello interiore, tra incubi e risvegli, appunti e domande, dubbi e nuove (precarie) consapevolezze. E il movimento forse più significativo del film è dentro l’opera (letteraria e cinematografica) del suo autore: il cammino dell’anziano artista è un flusso di (in)coscienza dove affiorano i brani del poeta (da Sportsdigte del 1967 alla recentissima Det bliver ikke væk del 2019) e soprattutto i film del regista, rivisitati (letteralmente) per mostrare l’effetto del tempo su luoghi e protagonisti. Così, Leth ritrova il ciclista Ole Ritter del doc Stars and Watercarriers (1974, sul giro d’Italia del ’73), mettendo in onirico corto circuito l’atleta invecchiato di oggi con le sequenze di ieri. E allo stesso modo, in un’intensa dissolvenza incrociata, fa incontrare presente e passato del tennista Torben Ulrich di The Motion Picture (1970).
Camminando dentro se stesso, per uscirne fuori (riuscendoci?), Leth si espone: come già altre volte nella sua produzione, e significativamente ne Le cinque variazioni (2003), dove si offriva (col corto del ’67) alla sfida-tortura dell’amico-collega-carnefice Lars von Trier.
E qui, allora, in questa (anti)cronaca di un tentativo di rinascita nella decadenza, c’è e si mostra integralmente, l’uomo imperfetto: nei suoi limiti e difetti, fisici (la pancia sporgente di cui si vergogna) e spirituali, compresa forse la vanità senile di maschio occidentale che vuole (ancora) tracciare e imprimere i confini della propria soggettività sulla natura indomabile. Compiacendosene? A tratti sì. Ma con una radicalità e sincerità (ormai rare), nella (de)costruzione di forma e (indistinguibile) contenuto, che nei momenti migliori hanno il coraggio e la densità dei percorsi con molto (forse troppo) da dire, da confessare, da esprimere.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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