C’era una volta Macondo. “Cent’anni di solitudine” secondo Netflix perde la magia

Sbarcano su Netflix i primi otto episodi tratti dall’immortale capolavoro di Gabriel García Márquez, “Cent’anni di solitudine”. La Macondo della serie, però, malgrado l’impegno, non rispecchia quella delle pagine, così come l’ingarbugliata famiglia Buendía. Se lo scrittore si era sempre opposto a una trasposizione visiva, forse, aveva le sue ragioni…

Molti anni dopo, davanti alla serie che ne portava il titolo, appassionati lettori e lettrici avrebbero fatto fatica a scorgere tra gli otto episodi le pagine immortali di Cent’anni di solitudine, l’opera-mondo di Gabriel García Márquez. Macondo era, nella loro memoria, un villaggio di venti case di fango e canne, oggi invece un set da oltre 50 milioni di dollari, spesi per ricrearne l’involucro ma non l’anima.

Netflix ha corteggiato a lungo la famiglia Márquez, con la consapevolezza, sia dell’azienda sia degli eredi, che Gabo per tutta la vita aveva negato caparbiamente di cedere i diritti del suo romanzo più famoso. Amava molto il cinema, si diplomò anche al Centro Sperimentale di Roma. Di molti suoi libri e scritti accettò una trasposizione su schermo, come nel famoso caso di Cronaca di una morte annunciata di Francesco Rosi. Ma Macondo e il romanzo che ne racconta la storia, no. Sapeva che erano le parole la sua dimensione.

Anche la serie, in parte, sembra saperlo. Non può rinunciare a una voce fuori campo che intervenga, ciancicando qui e là l’uno o l’altro passo del romanzo. Rimane l’unico legame con il suo indimenticabile tono epico, che Gabo sosteneva di aver recuperato dai racconti della sua abuela, e che gli fosse venuto in mente tutto in un colpo, mentre guidava tra le strade del Messico, non lasciandogli altra scelta che inchiodare sul posto e mettersi a scrivere.

La famiglia Buendía, con il suo dedalo di nomi e la profezia verso cui inconsapevolmente si avvita, finisce per risultare il compromesso tra le necessità della piattaforma e le atmosfere impareggiabili del libro, come un nodo sospeso tra due tiratori. Alcuni personaggi, ad esempio il patriarca José Arcadio, riescono a riallacciarsi con il romanzo; altri, come Rebeca, la figlia venuta dal nulla, si appiattiscono verso i prodotti Netflix più semplici.

Quel che manca maggiormente è la magia, ridotta a semplici atti inspiegabili e inspiegati, come le porte che si aprono e si chiudono da sole. Qui la serie dimostra di non aver cercato il cuore di Cent’anni di solitudine, che altro non è se non il lungo percorso per decifrare l’incomprensibile legge al fondo dell’esistenza. Lo dice il libro stesso, alla prima pagina, per bocca dello zingaro Melquíades, tornato in vita perché la morte è troppo solitaria: «Le cose hanno vita propria, è solo questione di risvegliarne l’anima». Netflix non l’ha fatto.

Non che abbia lesinato sforzi, anzi. Nominando i due figli dell’autore come produttori esecutivi ha accettato di sottostare alla loro supervisione e alle loro regole, compresa la più ferrea: fare della serie una produzione il più possibile colombiana, dai set alle maestranze. Una scommessa pericolosa, ma senz’altro vinta, e non era affatto scontato. La Colombia viene anzi fuori in maniera più dichiarata, persino con drappi e bandiere, quando nel romanzo la si poteva intuire senza nominarla.

Le piccole e grandi sfasature rendono evidente una volta di più di quanto quel libro abbia la sua grandezza non in ciò che succede ma nel come viene raccontato. Le vicende, pur fedeli, spogliate delle parole diventano più scialbe, insipide. Fino al paradosso per cui chi non lo avesse letto probabilmente non troverebbe nella serie, che pure è solo alla sua prima metà (la seconda parte verrà svelata prossimamente), una molla per provare ad assaggiarne le pagine.

Su quel che resta di Twitter, prima che il suo proprietario lo affossi definitivamente, un membro del Centro Gabo, Orlando Oliveros, ha persino provato a prendere a remare nell’altra direzione. Sul suo profilo ha pubblicato episodio per episodio una piccola disamina di cosa la serie ha rispettato e cosa invece ha lasciato indietro. Una piccola guida in buona sostanza, per chi non vuol perdere di vista il romanzo dietro la serie, scritta senza alcuna vena polemica ma col proposito di ridar forza a quelle pagine. Se “gabesco” può esistere come aggettivo, di tutto ciò che la serie ha prodotto forse sarebbe proprio Oliveros a meritarlo.

In ogni caso resta sicuro che l’autore avrebbe sorriso nel sapere che, per una di quelle coincidenze che sembrano strabordare la realtà, la serie sarebbe apparsa sugli schermi di tutto il mondo più o meno in contemporanea con Pedro Páramo, il film di Rodrigo Prieto tratto dall’omonimo capolavoro di Juan Rulfo, amato da Gabo fino al punto più alto dell’adorazione: il furto (è dalle pagine di Rulfo che viene, in realtà, quell’ incipit indelebile).

Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine, ormai lo sappiamo, non hanno una seconda opportunità sulla terra. È possibile che, per una legge analoga, certi capolavori di carta non possano averne sugli schermi. Se invece le serie godano di un più fortunato trattamento lo si potrà capire solo quando la seconda parte troverà la via degli schermi.