Clint e Trump, due cani sciolti nell’America profonda

Per i 90 anni di Clint Eastwood riproponiamo un pezzo di qualche hanno fa intorno alla sua “fede” politica. L’occasione era stata l’uscita di  “Sully” e il suo endorsement nei confronti del presidente Trump che poco sembra coincidere con i suoi film. Pier Luigi Manieri prova a rispondere alla domanda: “Clint è poco di destra”? …

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Clint Eastwood è poco di destra? La domanda sembra paradossale eppure rivelatrice di una tesi che gode di una certa diffusione quando si analizza il suo cinema. In molti, infatti, si sorprendono delle posizioni poco “di destra” prese dal reazionario Clint in alcuni dei suoi film (leggi gli articoli di Carlo Gnetti e Teresa Marchesi).

Si portano a ragione di tale ripensamento, le riflessioni sull’insensatezza della guerra, esposte nel poetico Lettere da Iwo Jima, il suo schierarsi al fianco della cinesina di Gran Torino, e più in generale tutte quelle istanze che nell’immaginario sono riconducibili se non alla sinistra, dato che negli Usa il concetto cambia radicalmente, ai progressisti.

L’equivoco di fondo non è nei supposti cambi di direzione di quello che è attualmente il più prestigioso autore di cinema statunitense quanto nelle aspettative o meglio, nei desiderata all’interno delle sue storie. Mi spiego meglio, ogni film, dai suoi esordi a oggi riprende, riflette e riscrive lo spirito autenticamente americano di Eastwood. Sia quando è pro, sia quando è contro e in questo essere in prima linea senza ipocrisie, è fedele a se stesso.

Come ogni intellettuale “di destra” americano, in quanto tale non ha una corporate di riferimento. Come ogni regista “di destra” si pensi a Milius, Cimino o Pechkimpah, Clint Eastwood è un cane sciolto che si riserva, se la storia lo interessa, di non compiacere nessuno, neanche il Presidente degli Stati Uniti.

La sua vicinanza a Trump è proprio in questo, entrambi sono cani sciolti. Repubblicani, va bene, ma come ogni conservatore americano prima di tutto si riconoscono nella loro individualità. Individualità che – per restare nelle semplificazioni – difficilmente un regista dichiaratamente democratico è in grado di esplorare fino in fondo.

Clint Eastwood invece si è concesso di scandagliare l’intera gamma di possibilità andando oltre il suo stesso prototipo di eroe silenzioso e risoluto fino all’essere spietato. Se è stato il giustiziere “reazionario” di Leone e il poliziotto che alle parole preferisce la 44 Magnum, si è anche prestato a dar vita ad avventurieri scanzonati e senza troppe pretese come Philo Beddoe, rissaiolo e camionista girovago. Come termine di paragone si prendano i suoi western crepuscolari. Film “chiusi”, senza concessioni ai grandi panorami. Ma intimi, e nichilisti. Feroci e profondamente umani. Distanti come di più sarebbe impossibile dallo sfarzo idealista di Kevin Costner.

Eastwood ha detto la sua scrivendo più di una pagina nell’epica dello sport che è essenziale e occupa un posto molto in alto nella fenomenologia a stelle e strisce, si pensi a Invictus che pur seguendo il lineare processo narrativo “understatement” è comunque fedele al’ideale dello sport inteso come metafora di unità ma pure di competizione, esposizione muscolare che è anche politica, si guardi, estremizzando il concetto, a Rocky IV.

E anche nel cinema sportivo, Clint Eastwood si distingue. Lo sport che unisce non ha colore, anzi è l’occasione della vita per chi è diverso, come la campionessa di boxe che però paga un prezzo salatissimo nell’inseguire il suo sogno. Ma alla fine della fiera è sempre una questione di chi vince e chi perde. E pure di chi vive e di chi muore ma per Eastwood, come per Mishima, non è detto che nella morte risieda necessariamente la sconfitta.

Piena è la galleria di diversi: dal controverso A mezzanotte nel giardino del bene e del male che indaga l’omosessualità di provincia a Bird, storia romanzata di Charlie Parker fuoriclasse del jazz, genio maledetto a cui Eastwood dedicò una delle sue opere più pregiate. Storie di outsider (Space cow boys) e di poco di buono (Un mondo perfetto).

Quanto a Mistic River, solo strumentalmente è un film sulla pedofilia. È piuttosto un’allegoria sul destino ineluttabile. Una superba parabola sugli sconfitti e sì, certamente sulle terrificanti bassezze a cui può scendere l’uomo, su cui scatta idealmente la condanna senza appello del regista e non da ultimo, un saggio sui pregiudizi.

Gli stessi pregiudizi che guidano il protagonista di Gran Torino, anche egli immerso nei suoi incubi del passato. A cui il destino offre però una chance di riscoprirsi. Ma è demagogia sostenere arbitrariamente che avere attenzione per un debole sia prerogativa di uno schieramento piutosto che un altro.

Obama ha spiato milioni di americani, e col sostegno della Clinton di fatto ha concesso all’Isis di dilagare. La destabilizzazione in Libia, a chi è imputabile? L’altra faccia della medaglia resta il suo cinema d’azione con forti accenti patriottici, dove sia come attore che come regista Clint non va per il sottile.

Firefox-Volpe di fuoco, cinque anni prima di Top Gun, afferma la supremazia aerea dei piloti da caccia statunitensi su quelli sovietici. In Gunny, tra una scazzottata con la polizia militare e l’insofferenza verso i superiori, occupa Granada in una guerra lampo. In Nel centro del mirino, regia di Wolfang Petersen, salva il presidente degli Stati Uniti. E il suo eroe americano, il tiratore scelto di American Sniper è emblematico di come il cineasta veda il mondo: giusta o non giusta la causa, è un eroe americano chi guarda le spalle al commilitone che avanza. La morale del film è questa, al netto delle analisi su certe oscurità che un’intelligenza come la sua non può non indagare.

Il conservatore Eastwood, è anche espressione se vogliamo, di quella destra risolutamente “anarcoide” non a suo agio nelle tentacolari maglie della burocrazia. Sintomatico è il ritratto che ci restituisce del direttore dell’Fbi, Edgard J. Hoover, anche questo simile al neo eletto Trump. Come il suo Sully che è il positivo di tutto ciò.

Proseguendo nel parallelo a Clint e Trump li accomuna la visione di ciò che deve essere l’America: meno global e più local. L’America del Jazz, dei jeans, della birra, delle Ford Gran Torino e delle pistole, concentrato elenco di pura identità a stelle e strisce nel bene come nel male, non c’è spazio per asettiche multinazionali.

Clint Eastwood è un cow boy è come tale sta nelle regole ma quando queste sono estranee alla sua natura, le ignora. Anche a costo di rendersi poco riconoscibile a queste latitudini dove l’adesione spesso coincide con la miopia. Da qui la supposta “incompatibilità” tra il regista e il presidente.

Ma quella faccia con due sole espressioni, e dagli occhi di ghiaccio, lascia pensare semplicemente che se ne freghi. Sul fronte politico, è stato sindaco conservatore di Carmel in California negli anni dell’amministrazione Reagan, ha dato il suo appoggio a Arnold Schwarznegger per diventare governatore e non ha fatto mancare il suo sostegno a McCain contro Obama.

Eastwood e Trump, dunque. Avanzare tesi di radicale incompatibilità tra i due è quantomeno un azzardo. In fondo Trump è solo alle prime battute. Quella del muro col Messico non è chiaro se sia stata una mossa elettorale o la sua reale intenzione. E la sua posizione nei confronti della Ford è assai gradita alla classe operaia di Detroit. Per entrambi, insomma, sembra valere la filosofia di vita di Philo Beddoe, campione di boxe clandestina per cui quella classica proprio non va bene: “Ci sono troppe regole”.