“Detroit”, fenomenologia di un massacro americano

In sala dal 23 novembre (per Eagle Pictures) “Detroit”, il nuovo, potente film di Kathryn Bigelow, passato alla Festa di Roma. La regista premio Oscar ci trascina nella rivolta del 1967, gli scontri tra afroamericani e polizia che causarono 43 morti e oltre mille feriti. Un campo di battaglia di cui mostra le conseguenze, incarnate in un cantante nero che non vuole più cantare. Prospettive da una rivolta: la rivelazione, in Bigelow, è sempre dentro l’immagine…

D come Diaz, D come Detroit. Kathryn Bigelow, prima donna premio Oscar miglior regista (The Hurt Locker, 2010) arriva alla Festa del cinema di Roma con il titolo più pesante nella modesta selezione di quest’anno. La cineasta inscena la rivolta del 1967, gli scontri tra afroamericani e polizia dal 23 al 27 luglio che causarono 43 morti e oltre mille feriti, insieme a gravi danni alla città e agli edifici.

Nel particolare, però, Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal si concentrano sul blitz della polizia di Detroit nell’Algiers Motel, culmine del tumulto: qui tre neri vengono uccisi, altri sette e due donne bianche sono pestate dagli agenti, secondo una ricostruzione mai sancita dalla verità processuale. Dove non c’è prova interviene la messa in narrativa, l’immagine colma il vuoto della verità: è la raffigurazione di un massacro americano.

Il racconto segue una serie di personaggi coinvolti: i poliziotti bianchi, tra cui spicca il razzista Krauss (Will Poulter, una rivelazione), la guardia privata Dismukes (John Boyega), nero costretto a guardare la mattanza dei neri, i componenti del gruppo musicale The Dramatics e in particolare la talentuosa prima voce, Larry (Algee Smith).

I personaggi, come sempre nella Bigelow, non vengono psicologicamente tratteggiati a priori ma emergono durante l’azione, si definiscono mentre sono in movimento, è il moto stesso a rilasciare gradualmente i segni dei loro caratteri: così Krauss spara alla schiena di uno “sciacallo” che svaligia un negozio (“Dove avrei dovuto sparargli?”, si chiede naturalmente). Qui l’autrice “moltiplica” le figure ossessionate dei film precedenti, come la Jessica Chastain di Zero Dark Thirty, disegnando un’ossessione a misura di ciascuno (la fissazione di sfondare per Larry, la difesa dei neri per Krauss) per poi sciogliere tutte le istanze mentali nella mescola della rivolta.

Il film inizia in adrenalina: la cinepresa passa dall’uno all’altro, la handycam registra la concitazione di strade, corpi e volti consegnando prospettive da una rivolta. Bigelow, qui, si conferma una delle maggiori registe americane portandoci in giro nella sommossa, trascinandoci nella polvere con una fluidità quasi virtuosistica tanto è esatta nel ritagliare i suoi frammenti (pochi girano come lei, si ricordi per esempio la pancia del sottomarino in K-19). Dalla fiction al repertorio, dalla ricostruzione ai giornali e tv, lo stralcio iniziale funziona quasi da sé, suona come un’installazione in movimento che percorre la Storia e la riproduce in messinscena realistica e possibile.

Quando entra nell’Algiers Motel – poi – Detroit dipana gradualmente una teoria di dominio, la concretazione in interno della violenza dei bianchi sui neri. Qui non solo la tortura fisica, ma soprattutto quella psicologica viene cinematografata dall’autrice: gli agenti trascinano le vittime nella stanza accanto e sparano per finta, costringendo gli altri a parlare. L’intimidazione sonora, la stanza che lascia vedere e non vedere, il gioco tragico della porta chiusa sfiora l’horror e ci chiama a indovinare – in modo insostenibile – se dietro quella porta la tragedia sia avvenuta o solo simulata. È, ovviamente, già politica: il potere dei bianchi, il razzismo esplicito sul colore della pelle e quello implicito che riguarda il diritto di possesso (viene paventata l’ipotesi della violenza come conseguenza delle donne bianche sorprese coi neri – rubano le nostre donne).

Nel secondo blocco narrativo, la cinepresa della Bigelow prende perfino in contropiede la sceneggiatura di Boal: se questa diviene granitica e divide legittimamente buoni e cattivi, il filmare della cineasta insinua il dubbio, fa balenare alcune possibilità e lo fa nell’unico modo che conosce, attraverso la costruzione dell’immagine. Così, a ben vedere, quando l’agente Flynn (Ben O’Toole) esce dalla casa è lui che l’inquadratura segue, ipotizzando una presa di stanza, un’uscita dal massacro che rende più potente il suo coinvolgimento successivo. Allo stesso modo c’è un detective bianco che incrimina i bianchi e c’è, soprattutto, un vigilante nero che assiste alla strage, ne è spettatore in quanto autorità, prigioniero di un nodo inestricabile, la spaccatura tra essere e dovere essere, che viene travolta dal dato della cronaca (e la sua reazione è fisica: vomitare).

Al di là del copione Bigelow problematizza, rende le complessità di un dilemma. Nell’ultima parte le onde del fatto si propagano, generano conseguenze. Il frammento processuale diventa inevitabile, qui il racconto ringhia, parla a lettere maiuscole dai volti degli imputati in aula, e la regista è più fuori corda nel cinema civile, nella sua impaginazione ordinata.

Alla fine l’ultima inquadratura è riservata al volto di Larry: qui si iscrive l’estrema conseguenza, un cantante che rifiuta di esibirsi e si riduce a una chiesa di quartiere. Si affaccia l’ombra della Storia: l’arte viene traumatizzata, umiliata fino alla scelta di negarsi, come in tutti i regimi, e anche qui la violenza colpisce una voce convincendola a tacere.

Larry è un nero che non può cantare: nella sua rinuncia c’è l’offesa subita da una cultura, e insieme un atto di opposizione contro l’industria dello spettacolo per bianchi. Detroit è anche un percorso: parte dalle urla di una rivolta e arriva al silenzio di un cantante, perché in mezzo interviene la mano dell’autorità. Il viso di Larry dice questo: la rivelazione, in Bigelow, è sempre dentro l’immagine.