Dieci, cento, mille Caporetto. L’Italia che cerca di rialzarsi nel doc di Ferrario

“Cento anni” fa la sconfitta di Caporetto. Davide Ferrario parte da qui, dallo storico anniversario, per ripercorrere in quattro tappe le fasi cruciali del nostro Novecento, seguendo la domanda fatidica che Thomas Mann si pone nella “Montagna incantata”: da una tragedia potrà nascere una nuova alba? Presentato al Torino Filmfest, “Cento anni” esce nelle sale dal 4 dicembre (per La 80 film)…

La domanda è sempre la stessa, sempre uguale. A voler fare i pignoli è la stessa dal ’24, quando Thomas Mann conclude la Montagna Incantata con quella domanda: da una tragedia potrà nascere una nuova alba? Una nuova occasione? La disfatta, la sconfitta sono, insomma, l’occasione per un riscatto?

L’interrogativo che accompagna le ultime pagine delle permanenza al sanatorio di Hans Castorp si ripropone pari pari ancora adesso. Ancora oggi, in Italia. Ed è proprio questo – porre le domande – il compito che si assume Davide Ferrario col suo lungo documentario Cento Anni, presentato nella sezione Festa Mobile del Torino FilmFes. Lungometraggio (poco più di due ore) che, a detta dello stesso regista, conclude la sua trilogia, avviata con Piazza Garibaldi e La zuppa del demonio, dedicata alla storia del nostro paese.

E la domanda – anzi la Domanda – comincia proprio col racconto di quella che può essere considerata la prima “sconfitta”, la prima tragedia, almeno in tanta parte dell’immaginario popolare italiano: Caporetto. Di seguito, gli altri tre capitoli del documentario, la Resistenza al fascismo (o meglio, le tragedie che accompagnarono la lotta al fascismo e l’immediato dopoguerra), la strage di piazza Fontana e l’ultimo un po’ a sorpresa: la crisi demografica, lo spopolamento di intere aree del Mezzogiorno. Con l’abbandono dei giovani di quelle terre che ormai non offrono più nulla.

Il filo rosso che li unisce è appunto l’interrogativo di sempre: c’è o no la possibilità di redenzione dopo quelle tante Caporetto? O meglio, come dice uno dei parenti delle vittime della strage fascista di Brescia: a cosa servono i morti?

I racconti utilizzano i volti, le voci, la musica di tanti artisti: Massimo Zamboni, che ha suonato nei CCCP di Lindo Ferretti, Marco Paolini e Diana Hobel, il poeta Franco Arminio, il violoncellista Mario Brunello. Mondi diversi, culture diverse, stili diversi. E tutto questo si riflette sulle modalità di racconto: ogni capitolo, ogni paragrafo ha un suo incedere, una sua cifra. Diversa, distante dalle “pagine” precedenti.

Ed è forse questa la cosa più interessante dei Cento Anni. Dove non mancano cadute retoriche, dove forse si ricorre un po’ troppo spesso – pensiamo al capitolo su Caporetto – alle immagine silenziose delle Valli contrapposte al rumore sordo, feroce dei cannoni, metafora fin troppo abusata. Ma che riesce a colpire nel segno quando “racconta” un passaggio storico attraverso l’esperienza soggettiva.

È il caso della liberazione di Reggio Emilia. Dove la voce narrante è quella di chi non ha mai avuto dubbi sulla parte “giusta” della storia, eppure ha avuto un nonno fascista. In prima linea nel reprimere qualsiasi dissenso. Un nonno ucciso – probabilmente – da due militanti delle brigate partigiane, che a guerra ultimata non avevano intenzione di “perdonare” i crimini commessi dal caporione locale. Due comunisti, le cui strade poi si separeranno al punto che uno dei due – negli anni terribili e misteriosi della lotta fra dogmatici e “realisti” nelle fila del Pci – ucciderà l’altro e si consegnerà alla polizia.

Racconto asciutto, inquietante. Terribile. Poi, nei capitoli su Brescia e sullo spopolamento del Sud, si ritorna ad un linguaggio più didascalico, meno problematico. Sia chiaro: non meno interessante ma forse più semplice. Fino alla scena finale – dopo la denuncia sull’impossibilità ad avere un futuro per chi abita nelle zone appenniniche del Sud – nella quale alcuni giovani, alcune decine di giovani, scalano a mani nude una montagna.

Immagine che in qualche modo sembra voler rispondere alla domanda di sempre. Anche se resta la sensazione che la storia di questo secolo non sia fatta solo di quattro tappe, anche se fra le più rilevanti, ma sia fatta da migliaia, milioni di Caporetto. Caporetto quotidiane per tanta parte di questo paese. Che è ancora lontanissimo anche solo dall’individuare la montagna da scalare.