“Dune” il libro impossibile da portare al cinema. L’epico fallimento di Jodorowsky (in un doc) aspettando Villeneuve (a Venezia)
È uno di quei testi sacri e allo stesso tempo maledetti, “Dune” primo capitolo della saga letteraria di Frank Herbert che ha scolpito il genere fanta-futurista. Il primo a cimentarsi senza riuscirci è stato l’autore di “El Topo”, il cui progetto monumentale è raccontato nel doc “Jodorowsky’s Dune” di Frank Pravich che ripercorre l’epica intergalattica mancata del regista cileno. Un’impresa megalomane in cui si cimentò anche l’allora giovane David Lynch (era il 1984) con conseguente catastrofe produttiva. Mentre è nelle sale il nuovo adattamento kolossal firmato da Denis Villeneuve …
Nel lontano 2013 il debutto alla Quinzaine des Réalisatuers di Cannes. Ad agosto, a distanza di anni, l’anteprima nazionale alle Notti Bianche del Cinema di Roma prima dell’approdo definitivo in sala: Jodorowsky’s Dune di Frank Pravich arriva sul grande schermo anche qui.
Uno sforzo documentario prezioso che ripercorre dopo 40 anni l’erculea impresa del regista cileno post-surrealista di tradurre in film il best-seller sci-fi di Frank Herbert Dune (1965), primo capitolo (Premio Nebula) di una saga letteraria che ha scolpito i risvolti del genere fanta-futurista anticipando eco-riflessioni e guerriglie intra-specie attualissime (specialmente in quest’era Covid post-Fridays for Future).
Pravich imbastisce un’archeologia filmica meticolosa, girata tra Francia, Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti, per tracciare le mosse di un’epica intergalattica mancata che ha saputo seminare suggestioni senza mai venire effettivamente al mondo, risvegliando così, dopo decenni, il fascino sopito di un’epopea cinematografica implosa sotto il peso della sua megalomania.
Un not-making-of che con un montaggio alternato di aneddoti e interviste, ricordi e bozzetti preparatori, dà respiro nuovo a un sogno caduto, a quella space opera faraonica di “Jodo” boicottata dalle major americane per timore di un “colossal flop” costato troppo caro.
L’exploit con El topo (1972) e La montagna sacra (1973) sembrava infatti averlo consacrato tra i grandi fantasisti del cinema d’autore per quelle atmosfere assurde, esoteriche e western che tanto piacevano alla cultura psichedelica dei ‘70 (John Lennon era suo fan sfegatato), quando invece nessun produttore fu disposto a rischiare la spesa per l’impresa.
Un disegno ambiziosissimo, un budget da capogiro e un team artistico stellare a impreziosirne la trama: Jodorowsky aveva ingaggiato i mostri sacri del design sci-fi come H.R. Giger (Alien), Dan O’Bannon (Dark Star), Chris Foss e Moebius (che ne ha illustrato lo splendido storyboard); al cast Mick Jagger, Orson Welles e Salvador Dalì (a cui promise 100.000 dollari all’ora), per la colonna sonora Pin Floyd, Gong, Tangerine Dream e Sun Ra, a musicare scenografie e atmosfere per ciascuno dei pianeti raccontati sontuosamente nel romanzo di Herbert.
Romanzo gigantesco, per dettagli e complessità, che in un ricchissimo esercizio creativo in pieno terrore atomico da Guerra Fredda dilata le peripezie sul futuro dell’umanità nell’iperspazio delle galassie più sconosciute. Un impero policentrico dove le casate feudali degli Atreides e dei barbarici Harkonnen lottano per spartirsi pezzi di universo e accaparrarsi la Spezia (o Mélange), un elisir salvifico che potenzia la percezione extra-sensoriale tingendo gli occhi di blu e rendendo possibili balzi spazio-temporali prodigiosi senza i quali l’intero sistema collasserebbe. Una droga potentissima prodotta solo nell’ostile pianeta di Arrakis, un grumo desertico di “Dune”, appunto, abitato da enormi vermi di sabbia che con movimenti ciclopici travolgono tutto come onde nell’oceano in tempesta.
L’immaginario herbertiano ha architettato una saga che è una sanguinosa faida tra vassalli futuristici, creature mostruose e ordini religiosi (come la Sorellanza Bene Gesserit metà Jedi metà streghe a sfidare i grandi patriarchi del potere), un intreccio di mistici complotti, tradimenti e attese messianiche, che affida la salvezza della specie alla preveggenza cosmica del protagonista Paul, reincarnazione cristologica con le stigmate del salvatore.
E Pravich col suo doc ci fa sbirciare nella genesi allucinogena di questa storia adottata da Jodorowsky con la promessa di estrarne l’essenza spirituale e mitica, libera dalle ridondanze letterarie, per scuotere lo spettatore attraverso un gioco di finzione spettacolare. Ed è proprio il regista illusionista che incantava il Sud America con le sue “psicomagie” filmiche a raccontarsi nelle interviste, con quel guizzo folle negli occhi di chi a novant’anni suonati ancora si infiamma per le sue glorie passate, soprattutto se irrealizzate (come il Napoleone di Kubrick, tra i tanti aborti dell’industria stroncati sul nascere).
E nel ripescare dal passato le goliardate del pre-produzione con quella crew di illuminati, non può che saltare fuori anche il nome di chi quell’idea l’aveva sbozzata (più o meno) a dovere e portata fin dentro la sala: il David Lynch poco più che esordiente, fresco di Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980), al suo primo esperimento sci-fi proprio con Dune (1984).
Un fiasco commerciale che fu un sollievo, racconta Jodorowsky compiaciuto, e unica opera disconosciuta dalla mente di Twin Peaks perché fortemente penalizzata dalle forbici della produzione De Laurentiis (che avrebbero tagliato fuori quasi un’ora di girato). A vuoto l’annata di riprese tra 75 set diversi, la preparazione durata tre anni per la scelta dei costumi (affidata ad Anthony Masters, scenografo di 2001: Odissea nello spazio) e i 600 attori coinvolti, tra interpreti e comparse (tra cui il suo attore feticcio Kyle MacLachlan, nel ruolo di protagonista, che poi non mollerà più). Aveva persino trascinato nell’impresa il genio italiano Carlo Rambaldi (il papà di E.T.) per dosare la suggestione mostruosa di quei vermi giganteschi che nuotavano tra le dune.
Ma dopo Blade Runner (1982) e a trilogia conclusa di Guerre Stellari, il tentativo Lynchiano di portare al cinema un caso editoriale di fama mondiale suonò un po’ come un’occasione persa, ricevendo una tiepida accoglienza da critica e pubblico che lo giudicò odiosamente incomprensibile, noioso e con espedienti quasi da B-movie sul finire, oltre che narrativamente farraginoso.
Un’esperienza che ha imposto al regista un controllo creativo quasi maniacale nelle produzione successive, proprio per scansare altri producer’s cut traumatici come questo, dove però, nonostante i buchi, si intravede già il lampo surrealista alla Lynch fatto di toni dark, visioni subumane e immagini da incubo (cui si aggiungono i set opulenti e zeppi di stupendi dettagli).
Una pellicola che resta comunque un must watch – insieme al Jodorowsky’s Dune di Frank Pravich (al cinema dal 26 agosto) – in vista dell’ultimo monumentale adattamento herbertiano confezionato da Denis Villeneuve e presentato Fuori Concorso in anteprima mondiale a Venezia 78.
Il regista franco-canadese di Blade Runner 2049 è infatti l’ennesimo cineasta a cimentarsi nell’epopea Dune, una missione che anche quando portata a compimento sembra per un raro maleficio non trovare mai l’incastro linguistico perfetto tra schermo e righe, come un’utopia cinematografica che è più brava a solleticare la fantasia piuttosto che a realizzarsi in una forma perfetta. Chissà che questa non sia la volta buona…
Francesca Eboli
Specializzanda in English and Anglo-American Studies a La Sapienza, appassionata di cinema e teatro, aspirante giornalista
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