«È sempre buio prima dell’alba». Ken Loach non si arrende e (nel suo cinema) uniti si vince
Il diritto inalienabile allo sciopero. La speculazione delle destre sui fenomeni migratori. Tony Blair e George Bush che per il massacro degli iraniani andrebbero portati all’Aja e processati per i loro crimini di guerra. E ancora “perché le Nazioni Unite non possono difendere i diritti dei palestinesi?”. È un fiume in piena Ken Loach davanti alla stampa per la presentazione del suo nuovo e potente film, The Old Oak (in sala per Lucky Red) che racconta proprio della possibilità di cambiare grazie alla solidarietà. A 87 “Ken il rosso” ne è sempre più convinto: uniti si vince. E noi non possiamo che credergli con l’ottimismo della volontà …
A 87 anni il combattente Ken Loach continua a lottare insieme a noi, anche e soprattutto attraverso quella «piccola voce in un mondo molto rumoroso» (così la definisce) chiamata cinema. Lo fa, da ultimo, con The Old Oak, il suo lungometraggio passato a Cannes 2023 e nelle sale italiane dal 16 novembre per Lucky Red.
Ed è venuto a Roma per presentarlo, tra un duetto con Zerocalcare e un passaggio al Centro culturale occupato Spin Time (del fumettista romano dice: «Non lo conoscevo e mi sarebbe piaciuto conoscerlo prima, ci siamo trovati d’accordo su tante cose, e abbiamo anche un po’ riso: non vedo l’ora di vedere i suoi disegni. E vorrei poter avere la sua gioventù!») e una conversazione con i giornalisti (aperta dalla sua, quasi timida, richiesta di «un doppio macchiato») dove il cinema è un punto di partenza per visitare criticamente ogni nodo dell’attualità, dalla condizione dei lavoratori ai conflitti armati, passando per i fenomeni migratori.
Proprio questi ultimi informano il nuovo film del cineasta, sceneggiato dall’ormai quasi trentennale collaboratore Paul Laverty («È un vecchio amico, oltre che un compagno», rimarca Loach, «ha fatto la gran parte delle ricerche, i personaggi e la storia sono quelli che ha creato lui») e incentrato sull’incontro fra rifugiati siriani e autoctoni di una ex comunità mineraria nel Nord-Est dell’Inghilterra. Cinema di finzione, «ma la situazione alla base è reale»: cioè quella di una regione dove «le miniere di carbone e i minatori sono stati distrutti da Margaret Thatcher: non perché lei fosse interessata all’ecologia, ma perché i minatori erano il sindacato più forte e politicamente erano molto radicali. Questi villaggi erano circondati dalla campagna, per cui alla chiusura delle miniere non c’era lavoro per gli abitanti».
Il conseguente declino economico e sociale, cui «nessun governo, né quelli di destra dei Tories né il Partito Laburista centrista» ha posto rimedio, ha fatto sentire le persone «arrabbiate, amareggiate, imbrogliate». E proprio in quell’area, prosegue il filmmaker britannico, è stato collocata la più alta percentuale di rifugiati in Inghilterra. «La gente del posto si chiedeva: “Perché vengono qui da noi? Noi non abbiamo nulla!”. La domanda si è poi trasformata in: “Non vi vogliamo qui!”, e poi in: “Non ci piacete!”. Eravamo interessati a vedere come si può sviluppare il razzismo partendo da una lamentela valida».
Ma in The Old Oak l’imbarbarimento non è l’unica opzione: perché malgrado tutto «c’è ancora la vecchia tradizione di solidarietà dei minatori», in dialogo col punto di vista dei siriani: «Anche loro non hanno nulla, inoltre hanno vissuto il trauma di una guerra: case distrutte, tutti hanno perso qualche parente, abbiamo sentito storie tremende delle torture a cui sono stati sottoposti gli uomini. E ora si trovano in un paese straniero di cui non conoscono neanche la lingua». Ma se al loro arrivo nel 2016 «incontrarono le ostilità che noi mostriamo, nel 2020, al tempo della nostra documentazione per il film, si erano già creati dei buoni rapporti, dei legami. Per cui ci siamo sentiti giustificati nell’affermare che è possibile, non è una nostalgia sentimentale: le persone riescono a riunirsi, a convivere».
Si potrebbe definire, gramscianamente, un ottimismo della volontà quello di Loach, perché pur nella lucida messa a fuoco delle ingiustizie e tragedie contemporanee vede non solo la necessità, ma la prospettiva concreta di fermarle. Vale anche per il diritto di sciopero, messo in dubbio negli ultimi giorni anche in Italia: «La stessa cosa», nota Loach, «sta succedendo in Gran Bretagna, ammantandola con l’idea che bisogna continuare a erogare servizi essenziali, per cui ad alcuni lavoratori non verrà mai consentito di scioperare al 100 %, in questo caso quelli del trasporto». Ma ciò, per il regista, significa «che la classe al potere rappresentata dai politici si sta spaventando», e quindi che «lo sciopero funziona. Può sembrare un momento buio, ma noi diciamo “è sempre buio prima dell’alba”».
Purché, naturalmente, ci si mobiliti: tanto più che, se il diritto ad astenersi dal lavoro per protestare contro lo sfruttamento viene meno, «non è soltanto un attacco contro quel singolo sindacato, è un attacco a tutto il movimento sindacale. E se il governo, per conto dei datori di lavoro, attacca l’intero movimento sindacale, allora tutto il movimento sindacale deve smettere di lavorare, perché o lo fai o perdi. E questa è una sfida per i leader dei sindacati: siamo in un momento critico e devono stare con i diritti della classe operaia, che credo sia vicina a un’importante vittoria».
Lo stesso vale, tra le altre cose, per le guerre che infiammano il pianeta, dall’Ucraina al Medio Oriente, e che sono state negli ultimi vent’anni tra le principali cause delle migrazioni forzate su cui speculano politicamente le destre: «La Gran Bretagna ha svolto un ruolo vergognoso in questo senso: la guerra illegale di Tony Blair e George Bush in Iraq ha ucciso un milione di persone e altri milioni sono rimasti senza un tetto, hanno dovuto lasciare il Paese e questa cosa ha destabilizzato l’intera regione. Persone come Blair andrebbero portate all’Aja per rispondere dei loro crimini di guerra. Invece lo vediamo frequentare spesso la BBC e parlare da vecchio statista, mentre dovrebbe essere rinchiuso».
Da questa e dalle altre emergenze, come la povertà e i cambiamenti climatici, ne usciremo solo «agendo collettivamente»: ciò che dovrebbero fare «le Nazioni Unite, create dopo la Seconda Guerra Mondiale proprio affinché quelle atrocità non si ripetessero più. Ma, da quando sono nate, le grandi potenze hanno sempre tentato di minarle: primi in assoluto gli USA, anche la Russia però ha fatto la sua parte».
Sui recenti fatti in Palestina, Loach è altrettanto netto: «La barbarie degli attacchi sferrati da Hamas è stata un crimine di guerra, ma lo è anche l’attacco di Israele contro il popolo di Gaza». Il cineasta sostiene non a caso la posizione espressa dal Segretario Generale ONU Guterres, nel discorso che tanti strali (e accuse di antisemitismo) ha suscitato dalla destra israeliana e dai suoi apologeti occidentali: «Credo abbia parlato con saggezza, dicendo che gli attentati del 7 ottobre non si sono verificati dal vuoto, ma dall’oppressione dei palestinesi per decenni, e sappiamo cos’è quell’oppressione. Tutti, secondo le leggi internazionali, hanno diritto alla difesa, a godere di diritti umani e a resistere quando questo viene loro negato. Ancora una volta è responsabilità delle Nazioni Unite intervenire: hanno mandato forze di peacekeeping in altre aree, perché non possono difendere i diritti dei palestinesi?».
Insomma, il cantore degli emarginati, degli oppressi e dei resistenti non ha perso la voglia di schierarsi. E ritiene sia «un grande privilegio» poterlo fare attraverso il cinema, che unendo scrittura, immagini, musica, può essere «un grande mezzo popolare». E pensare che tutto, per Loach, era cominciato sul piccolo schermo degli anni ’60: «È stato un momento unico perché la tv era agli inizi e chi la controllava non si era reso conto di quanto potesse essere potente: non avevamo la microgestione a cui sono sottoposti i registi e gli sceneggiatori oggi. Nessuno vedeva quello che mandavamo in onda se non un giorno o due prima, per cui abbiamo fatto delle cose, magari caotiche, ma in mezzo a quel caos un paio di cose passavano: alla fine di una trasmissione, ho messo persino una citazione di Trotskij: erano furiosi, ma era troppo tardi!».
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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