“Fragole e sangue” 50 anni dopo. È ancora il manifesto dei ribelli di tutto il mondo

La recente scomparsa di Israel Horovitz, grande drammaturgo americano che ha debuttato nel cinema firmandone la sceneggiatura, ci offre l’occasione per ricordare “Fragole e sangue”, film-manifesto diretto da Stuart Hagmann esattamente 50 anni fa. Dal memoriale-autobiografico dello studente James Simon Kunen, un titolo divenuto storico, “pietra miliare” per i ribelli d’ogni tipo e latitudine, occasionali o professionisti. Accusato, invece, da i suoi detrattori di essere “un filmetto giovanilista” …

C’era una volta, giusto 50 anni fa, proprio quando tutto il mondo della “Contestazione” esplodeva, un ingenuo studente universitario della Columbia University, forte nel canottaggio più che nelle materie accademiche, che “volando” letteralmente da uno schermo cinematografico all’altro, da un d’essai all’altro, da un cineclub all’altro inseguiva una indomita “compagnia” di “colleghi” dediti a portare quello scompiglio che sempre porta chi reclama: “Pace”. Era Simon, un giovane universitario privo di interessi politici e facente parte della squadra di canottaggio dell’ateneo e quel film era Fragole e sangue. E fu subito una rivoluzione di fragole e di sangue.

Fragole e sangue (“The Strawberry Statement”) è il “monumentale”, ora possiamo dire così, film del 1970 diretto Stuart Hagmann, tratto dal libro – memoriale autobiografico, Fragole e sangue: diario di uno studente rivoluzionario di James Simon Kunen, che raccontava – e racconta -, quasi per “caso”, i fatti di una primavera americana del 1968 (tra l’aprile e il maggio del 1968, durante l’occupazione della Columbia University di New York). Vincitore del Premio della giuria del 23º Festival di Cannes, senza promozione, senza star, senza regista di grido il film restò – e resta – ad ogni modo scolpito da subito nella storia del Cinema e della Società.

L’occasione di ricordarlo è anche, oggi forse soprattutto, l’occasione di ricordare Israel Horovitz, drammaturgo, autore della sceneggiatura del film, morto da qualche giorno, ad 81 anni, dopo una lunga e fatale malattia nella sua casa di New York, e qui al suo debutto come scrittore di cinema.

Il rapporto di Horovitz con la Metro-Goldwyn-Mayer e gli studios californiani? Pessimo, come quello di decine di colleghi con le majors. Però, stavolta, a “lieto” fine.
Anzitutto per l’ambientazione: Horovitz voleva a tutti i costi ambientare la storia nel vero luogo dove si era svolta, ossia la Columbia di New York. Poi c’era la questione del tipo di “racconto”. Scoperto che c’erano metri e metri di repertorio che avevano, in stile di cronaca, ripreso gli avvenimenti, aveva redatto uno script che vedeva parti recitate intrecciarsi con immagini autentiche dell’epoca.

Irwin Winkler, producer del film per conto della MGM, che l’aveva voluto dopo aver visto la pièce che Horovitz aveva scritto per il Festival dei Due Mondi di Spoleto Festival, quel celebrato The Indian Wants the Bronx con Al Pacino protagonista, non riuscì però a proteggerlo. A farla breve, si girò così a San Francisco e senza “repertorio”.

Ne venne fuori un racconto en plein air, sole e belle ragazze, che incredibilmente però, oltre a strizzare l’occhio ai Beach Boys, in modo “facile” e diretto, soprattutto comunicò a milioni di giovani non politicizzati in tutto il mondo quanto fosse giusto, importante, non rimandabile impegnarsi su cose come il “pacifismo” e “l’antirazzismo”. Mai sottovalutare la potenza comunicativa di Hollywood, sempre mossa da scopi “mercantili”, ma attenta a culture e controculture…

Era il 1968, all’epoca dei fatti, e l’America aveva, davanti ai suoi occhi che non volevano vedere, l’evidenza di crimini come la guerra del Vietnam, o quella degli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King. Era tempo di scuotere quelle coscienze…
Così Horovitz passò, per l’importanza che il film assunse, anche sopra l’inclusione di – alcune – scene da lui non scritte, per apprezzare piuttosto il risultato finale: un’opera che, nei decenni successivi, divenne “pietra miliare” per i ribelli d’ogni tipo e latitudine, occasionali o professionisti che fossero.

Comunque non una riga dei suoi dialoghi venne cambiata. Horovitz lo difese addirittura questo “filmetto” giovanilista in un accorato articolo sul New York Times, nel quale replicava alla stroncatura ricevuta dal “collega” scrittore Dotson Rader. Scrisse: “Il film non è per Dotson Rader o per intellettuali famosi. Il film è per una ragazza di 15 anni che vive a Wakefield, Massachusetts (il posto dove Horovitz è nato, Nda), e che ha paura di dire ad alta voce di essere contro la guerra in Vietnam, perché vive in una comunità così perbene, che per una cosa del genere avrebbe paura di essere etichettata come “comunista” “.

Nell’indifferenza generale su cosa stesse passando nelle teste dei giovani di tutto il mondo, famosa in questo la frase del Rettore della Columbia che dà spunto per il titolo: “Non mi preoccupo degli studenti più di quanto mi preoccupo delle fragole”, una colonna sonora d’eccezione fa da apripista a sentimenti profondi. Magnetici. Sconvolgenti. Rifondativa.

Parliamo di Joni Mitchell, Crosby, Stills, Nash & Young, ma soprattutto di Give Peace a Chance, inno del movimento pacifista scritta da John Lennon, ritmato, nel film, in una session unica da centinaia di mani di studenti seduti a terra, in circolo, nella palestra dell’università, occupata contro la decisione del Rettore di cedere un terreno sportivo per destinarlo a campo di addestramento delle reclute per la guerra nel Sudest asiatico; studenti asserragliati per difendersi, a braccia levate, dalla violenta ferocia della Guardia nazionale. Ansia che sale, senso di ingiustizia che pervade ogni fotogramma…

Ingaggiato dalla MGM proprio per il suo radicalismo e per la sua capacità di saper raccontare, snodare e riannodare conflitti, il “ribelle” Israel Horovitz è nato, come si diceva, nella cittadina di Wakefield (nome che è anche il titolo di un magnifico racconto dello scrittore americano Nathaniel Hawthorne), in Massachusetts, nel 1939 in una famiglia ebraica, ma visse tutta la sua vita lavorativa tra New York, la Francia (è l’autore americano più rappresentato in Francia) e l’Italia.

Horovitz si rivelò giusto nel 1968 (Line è dell’anno precedente) con due clamorosi atti unici (spesso rappresentati insieme): It’s Called the Sugar Plum e The Indian Wants the Bronx. Il primo racconta la storia di uno studente che in un incidente con la sua auto uccide un uomo ed in seguito riceve la visita della fidanzata dell’uomo nel suo appartamento. Il secondo racconta di due teenagers sbrigativi e violenti e del loro scontro con un uomo venuto dall’India per visitare suo figlio a New York.

Entrambi erano assai crudi; centrati su emarginati ed “estranei” non mascheravano l’insorgenza della diffidenza e della violenza metropolitana, scostanti, ruvidi, rimasero molto a lungo in cartellone all’Astor Place Theatre, scena prediletta dell’Off-Broadway.

Line (1967), rappresentato anche in Italia (tra gli altri Teatro di Roma, 2011) è anch’esso un atto unico, messo in scena per la prima volta nel novembre del 1967 a New York, al leggendario “Cafè La Mama” di Ellen Stewart, pièce decisamente sul versante teatro dell’assurdo (da notare l’amicizia di Horovitz con Beckett nata nei giorni delle riprese di Fragole e sangue): 5 persone sono in fila in attesa di un evento che non comincia né avviene (che tipo di evento si stia aspettando non sarà mai chiaro).

Prolifico e vero “maratoneta” della pagina, per sua stessa ammissione, Israel Horovitz ha scritto oltre settanta testi teatrali, di cui molti tradotti e messi in scena in più di trenta lingue diverse. Un “maestro” della scrittura creatore di opere con le quali hanno avuto il loro debutto attori importanti come il già citato Al Pacino, o Jill Clayburgh, o Diane Keaton.

Intrigato dal management teatrale, Israel Horovitz fece inoltre diverse esperienze da “gestore” ed organizzatore, in America, in Francia, in Italia. Tra l’altro nel 1979 diede vita alla Gloucester Stage Company (Gloucester, Massachusetts), di cui è stato stato direttore artistico fino al 2006 e direttore emerito fino al 2017, quando si è dovuto dimettere dopo che i giornali avevano rivelato accuse di molestie sessuali da parte di nove donne; accuse rimaste poi senza seguito.

Sul sito della Gloucester Stage Company si può in questi giorni trovare questo sincero saluto ad Israel Horovitz, tratto da un articolo del New York Times: “You’d be hard put to find someone who tells [a] story better or with greater humor than Mr. Horovitz” (Sarebbe difficile trovare qualcuno che racconti (una) storia meglio o con maggiore umorismo del signor Horovitz).