Röhrig: “Il mio Saul tra Primo Levi e i Sonderkommando”


Parla lo scrittore, poeta e attore ungherese protagonista de Il figlio di Saul, Gran Premio a Cannes, vincitore del Golden Globe per il miglior film straniero e in corsa per l’Oscar.  E dice: “Oggi con i droni si uccide con la stessa freddezza scientifica utilizzata nei lager nazisti”…

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Colmare il divario tra la propria realtà e quella di un membro dei Sonderkommando, immedesimarsi nel personaggio per mostrarne i valori umani, estraniandosi da un mondo fatto solo di atrocità. Questa è stata la sfida più difficile per Géza Röhrig, interprete protagonista de Il figlio di Saul dell’ungherese László Nemes, dedicato all’inferno di Auschwitz.

Scrittore e poeta, prima che attore, Géza Röhrig ha trattato l’orrore dell’Olocausto in diversi dei suoi testi, come racconta a Roma all’incontro con la stampa: “Il primo libro che ho scritto su questi eventi è stato pubblicato anche in Germania e ben accolto. Eppure, però, credo che il boccone fosse troppo grande per la mia bocca, non ero ancora pronto, né avevo esperienza sufficiente per parlarne. Avevo bisogno di prendere le distanze da questi lavori e l’ho potuto fare grazie a Il figlio di Saul. La mia raccolta di poesie non era assolutamente al livello del film. Per questo ammiro  moltissimo László che è stato capace di aspettare il momento giusto per approcciarsi a un tema così doloroso e guardare dalla giusta angolatura le cose”.

E cioè attraverso lo sguardo di Saul, membro dei Sonderkommando di Auschwitz, i gruppi di prigionieri ebrei addetti al funzionamento della “macchina della morte” nei lager. Le cui testimonianze, raccolte nel testo Des voix sous la cendre (pubblicata dal Memoriale della Shoah), hanno fatto da traccia alla narrazione del film, attraverso minuziosi e agghiaccianti “dettagli”. Dall’accompagnamento delle vittime alle camere a gas, fino alla rimozione dei cadaveri e alla pulizia dei locali, tutto a ritmi industriali e con un fucile puntato sulla schiena: “Questa divisione dei compiti – sottolinea l’interprete – è l’aspetto più demoniaco del nazismo: uccidere il maggior numero di ebrei coinvolgendo il minor numero possibile di tedeschi, lasciando fare così il lavoro sporco agli altri. Questa è la novità: gli assassini hanno la possibilità di sentirsi innocenti perché non vedono le conseguenze immediate dei loro atti, lasciano agli altri i compiti di separare i corpi, pulire i forni, polverizzare le ossa. Questo modo scientifico di dare la morte si sta verificando anche ora attraverso i droni, per cui chi uccide tramite delle macchine non si sente direttamente colpevole”.

Il personaggio di Saul, prosegue Röhrig, “è quello di un uomo ordinario che prende una decisione straordinaria: cercare di dare una degna sepoltura a un ragazzo – forse il figlio – che ha visto prima resistere alla camera a gas e poi venir soppresso da un “dottore” nazista. Una decisione che può apparire folle, ma manifesta una fede in qualcosa di superiore, un ritrovato sentimento vitale, un gesto di umanità che contrasta l’atrocità e la morte che circondano lui e tutti gli altri ebrei deportati”. Saul non vuole essere un eroe, ma è sicuramente un personaggio eccezionale, come testimonia il suo cognome, Ausländer, “che letteralmente significa lo straniero, ma io direi l’extraterrestre – aggiunge l’interprete – , perché il suo comportamento è quello di uomo che non viene da questo pianeta, soprattutto se il pianeta dove ci si trova è Auschwitz”.

“La sfida più complessa – prosegue Röhrig –  è stata allora colmare quel divario tra il mio mondo e la realtà dei Sonderkommando, e per farlo mi sono aiutato prevalentemente con le fonti letterarie. Dalle testimonianze dei Sonderkommando, che sono state ritrovate e divulgate soprattutto negli anni ’80, fino ai libri di Primo Levi, fondamentali per affrontare il dilemma etico. E poi, ancora, i racconti di mio nonno, che aveva perso i genitori e due fratelli nei campi di concentramento”.

Un percorso complesso, doloroso, dunque dal quale è stato segnato profondamente. “Alla fine delle riprese – conclude – in molti mi chiedevano se mi sentissi depresso, ma paradossalmente la parte più difficile è venuta dopo. Al ritorno nella vita normale mi sembrava che tutto fosse superficiale, frivolo. Come testimonia Primo Levi, ad Auschwitz anche la lingua era diversa, le parole che venivano usate, aver fame lì significava vedere un altro essere umano come qualcosa di commestibile. Insomma, è stato difficile riabituarmi alla vita di ogni giorno”. Una vita che si è riempita anche di grandi riconoscimenti e premiazioni, compresa la candidatura all’Oscar come miglior film straniero, a cui però Röhrig sembra non pensare troppo: “Questi premi sono come una lotteria, serve anche fortuna, se dovesse arrivare ben venga, altrimenti pazienza”.


Francesco Trotta

apprendista


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