“Hopper, una storia d’amore americana”. Il pittore dell’incomunicabilità più amato dal cinema, in un doc
In sala soltanto il 9 e 10 aprile (per Nexo digital) “Hopper, una storia d’amore americana” di Phil Grabsky, un reportage sulla vita e l’opera dell’artista simbolo dell’arte statunitense, Edward Hopper, il pittore dell’incomunicabilità e della solitudine a cui tanto deve il cinema (da Billy Wilder a David Linch) e viceversa: nelle rare interviste diceva che “proiettava i suoi sentimenti sulla tela”… proiettava e non dipingeva. Nel film documentario anche la storia d’amore con la moglie Josephine Nivison che lo avviò al successo e alla fama …
Un bar aperto di notte. Una stanza spoglia, illuminata dall’alto. Un donna con abito rosso mangia un panino, il barista vestito di bianco, due uomini con cappello. Quattro personaggi che non si guardano, non si parlano, ognuno chiuso in sé sesso . Non c’è una porta per entrare nel locale, quella invece sullo sfondo è priva di maniglia. Un’ isola impenetrabile in una città vuota.
È Nighthawks, nottambuli, uno dei quadri più famosi di Edward Hopper, l’essenza del pittore americano dell’incomunicabilità e della solitudine. Lo spettatore è istintivamente portato a farsi delle domande: chi sono quelle persone, che cosa le ha portate in quel luogo, che cosa fanno o che cosa stanno per dire, quale trama della vita le ha messe insieme … ognuno è libero di inventarsi una storia.
Per questo è il quadro del ‘900 che ha più influenzato il cinema: da Billy Wilder in Giorni perduti e Dario Argento in Profondo rosso a David Linch di Mullholand drive. Una vera passione per Wim Wenders che oltre a numerose citazioni nel 2020 ha voluto omaggiarlo con un corto in 3D prodotto per una grande mostra del Maestro alla Fondazione Beyeler a Basilea intitolato con godardiana memoria Quelle due o tre cose che so di Hopper.
Molte altre opere dell’artista sono state fonti d’ispirazione, soprattutto per il regista Alfred Hitchcock: le scenografie di Psycho riprendono l’architettura di House by the railroad; La finestra sul cortile, in una scena in particolare, fa riferimento al soggetto voyerista di Night Windows e ancora la protagonista di La donna che visse due volte sembra il ritratto della donna sola di Morning Sun.
Ma anche l’influenza del cinema su Hopper è stata enorme: lui stesso raccontava che quando non dipingeva andava al cinema per pomeriggi interi.. lo testimoniano anche alcuni sui quadri ambientati proprio nelle sale. E parlando della sua pittura nelle rare interviste diceva che “proiettava i suoi sentimenti sulla tela”… proiettava e non dipingeva.
Un amore e una dipendenza così grande meritava un film documentario che raccontasse questo personaggio così atipico dell’arte del XX secolo: Hopper, una storia d’amore americana arriva nelle sale solo il 9 e 10 aprile come nuovo appuntamento della serie la Grande arte al Cinema, promosso da Nexo digital.
Un reportage sulla vita e l’opera dell’artista simbolo dell’arte statunitense, diretto da Phil Grabsky con l’ambizione di analizzare a fondo l’arte e la persona di Hopper (1882-1967). Molte le interviste e le testimonianze di esperti e storici dell’arte, curatori di musei che conservano le poche e preziose opere, (non faceva più di due, tre quadri l’anno), bellissime le immagini d’epoca che si mescolano a quelle di un’attualità cristallizzata dalla fama di certi quadri. Ed emoziona vedere come nell’America che tutto divora e cambia, certi scorci, certi edifici, certe case immortalate negli acquerelli e negli olii di Hopper sono rimasti tali e quali.
Poi piano piano la curiosità dello spettatore viene attratta dalla personalità dell’artista: un uomo alto un metro e novanta, occhi chiarissimi, poco socievole, retaggio forse di un rigida educazione religiosa, un carattere solitario, che anche nella splendida Parigi dei primi del ‘900 evita accuratamente di fare comitiva con gli artisti di Montmartre, gente come Picasso, Modigliani, Matisse, tanto per dire, per passeggiare da solo a Montparnasse dove viveva ospite di due anziane signorine conoscenti della madre, e finire rifiutato per un decennio da una ragazza che educatamente gli preferì un altro.
Insomma , oggi si direbbe un tipo un po’ ”orso”. Scarsa anche la fortuna come pittore, un solo quadro venduto al ritorno in patria – barche in un marina- fino all’incontro fortunatissimo con quella che diventerà sua moglie, Josephine Nivison, anche lei pittrice. Fu lei, socievole e disinvolta, a procurargli un gallerista e a dare il via al suo successo di fama e di vendite. Per poi – a dire il vero – rinfacciarglielo in 24 puntuali diari, dove rimpiangeva di aver messo da parte la sua pittura per promuovere quella di lui. Un Lui che chiamava Eddy quando si comportava bene, oppure solo E in caso di esasperato egoismo.
Una storia non nuova nel mondo maschilista dell’ arte, ma diciamoci sinceramente anche vedendo le opere dei due su uno stesso soggetto, messe fianco a fianco, quella del pittore ha una forza e una padronanza dello spazio e della prospettiva che sovrasta.
Anche se si sentiva frustrata nelle sue ambizioni, Jo è stata l’unica assoluta protagonista di tutti i quadri di Hopper che dopo il loro matrimonio non ebbe nessun altra modella che lei.
Insieme comprarono la casa a Cape Cod, fonte di ispirazione di tante opere. Viaggiarono in tutti gli States, dormendo nei motel, facendo benzina alle grandi pompe rosse diventate protagoniste di tele iconiche.
È la loro la storia americana del titolo del film, una storia che racconta il regista è emersa via via che raccoglieva materiali e testimonianze:
“Inizialmente sono stato attratto dall’idea di un uomo scorbutico, monosillabico e sgradevole, ma ho imparato che questa era una sintesi molto ingiusta dell’uomo Hopper, che è stato molto più complicato e complesso di così. Durante gli studi per il film, ho anche scoperto che non si può capire Edward Hopper senza capire sua moglie, Jo. È per questo motivo che, con il progredire delle ricerche, abbiamo cambiato il titolo in Hopper: Una storia d’amore americana, alludendo sia al suo amore per l’architettura e i paesaggi americani, sia al suo rapporto con Jo.”
Ma l’osservazione delle sue opere permette anche di scoprire quanto la sua realtà fosse sempre il racconto di sé stesso e dei suoi stati d’animo. Mentre gli artisti americani suoi contemporanei sperimentano nuove forme e cercano l’innovazione in uno mondo frenetico di cambiamenti culturali e sociali, niente di tutto questo è nei quadri Hopper.
Città e strade vuote, uomini e donne rigorosamente bianchi senza volto che non parlano o danno le spalle allo spettatore. Eppure erano gli anni delle grandi rivoluzioni, in Washington Square a New York dove Hopper ha vissuto per decenni, suonava e cantava Bob Dylan. Le parole di Martin Luther King infiammavano le piazze. Quel mondo che stava cambiando non traspare da nessuna parte. Resta la solitudine delle case, delle persone, un’attesa eterna senza speranza. Il silenzio.
“Non dipingo quello che vedo, diceva Hopper, ma quello che provo. il mio obiettivo in pittura è la trascrizione minuziosa delle mie sensazioni: molti negano questo ideale, ogni divagazione da questo obiettivo mi annoia”.
Ogni quadro è il suo autoritratto. Quello di un uomo solo che si interroga sull’esistenza. Ma non gli interessa il pensiero degli altri. Parla a se stesso. Solo nell’ ultimo quadro, quello che resterà sul cavalletto dello studio alla sua morte, si presenta di fronte al pubblico, “I due comici” : lui e la sua compagna, sulla ribalta di un palcoscenico, per un ultimo inchino, mano nella mano.
Monica Carovani
Fiorentina, giornalista e appassionata d’arte. Dalla carta stampata alla tv, 40 anni di professione con il vizio della curiosità: da Paese Sera il Nuovo Corriere a Moda e King passando dalle collaborazioni con il Messaggero e ADN Kronos. Poi tanta Rai: Tg3 vice caporedattore cultura , Tg1 on Line, Rainews24. Per evitare conflitti familiari con il marito pittore, si occupa soprattutto di grandi artisti del passato.
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