Il distanziamento sociale nella bidonville di Kurosawa. Un capolavoro 50 anni dopo
È il primo film a colori dell’ “imperatore” Kurosawa, “Dodes’ka-den” dalle pagine di Shūgorō Yamamoto, che a distanza di 50 ci dice molto del nostro presente. In una bidonville nel Giappone degli anni del boom economico, un racconto “sociale” sull’abbondanza e sulla carestia. Otto crude vicende parallele. Vite rassegnate. Vite segnate. Gente che ha perso la propria partita con la società. Un racconto sul “potere”, sulla gestione dei luoghi, sulla ripartizione, sul controllo, sulla sorveglianza. Non ci sono recinti, né pedinamenti digitali, ma il distanziamento sociale è stato già creato e nessuno concepisce nemmeno l’idea di infrangerlo …
“In periferia, è soprattutto con i tram che la vita arriva al mattino”.
(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)
Arriva ai 50 anni Dodes’ka-den, anno di edizione 1970, regia di Akira Kurosawa, basato sul romanzo di Shūgorō Yamamoto, Quartiere senza sole, primo film a colori dell’ “imperatore” (che ha però già in sé tutte le grandezze pittoriche di Ran o di Sogni), all’epoca candidato all’Oscar come migliore opera straniera: un flop d’incassi che è però, come spesso accade, divenuto col tempo un pezzo essenziale, emblematico del cinema di Kurosawa.
“Stabilite un centro. Stabilite una periferia”. Così comincerebbe a raccontarla Irvine Welsh, autore scozzese (“Trainspotting”), riconosciuto interprete della marginalità contemporanea di case, casupole, baracche e dei loro abitanti “deportati”.
E siamo allora in una bidonville sperduta, nel Giappone degli anni del boom economico, in qualche parte ai bordi di Tokio: natura dimenticata, avvizzita, cumoli di rifiuti, facce vuote, erba secca, tinte morte. Scenari da dopo bomba o dopo terremoto (o da carneficina sociale), a scelta, cui il Giappone è abituato.
Alberi ammalati, carbonizzati: “Che razza di albero è questo? La verità è che un albero morto non è più un albero”, dice profondamente rassegnata una delle protagoniste accarezzando un ramo d’albero riarso nello slum, sotto una luce talmente livida da raggelare. Ma lì tante cose, e soprattutto le persone in primis, non sono più quello che vorrebbero, e dovrebbero, sembrare.
C’è anche una città, un centro (Tokio), oltre alla periferia; un centro che però non si vede mai. Dal quale arrivano solo frettolosi “emissari” (evidentemente “costretti” ad andare): un garzone di un negozio di sakè (in bicicletta, sembra un “moderno” rider; per giunta un rider “innamorato” di una ragazza della baraccopoli), un poliziotto, un ispettore. Vaghe assonanze con il presente. Chi arriva dalla città, comunque “controlla”, “dispensa” cose; poi torna via a “riferire” (avrà compilato schede, documenti di consegna, ecc. : antesignani degli algoritimi). In fretta, chi arriva dal “centro”, va via da quel luogo.
Non ci sono recinti, né pedinamenti digitali, ma il distanziamento sociale è stato già creato, viene ribadito e nessuno concepisce nemmeno l’idea di infrangerlo. Nessuna rivalsa nell’aria, nessun samurai “cane sciolto” che voglia difendere quella comunità (vedi la vicenda de I sette samurai, Kurosawa, 1954), solo un destino inscalfibile che regge graniticamente il gioco del tutto.
Anche il tram arriva nello slum ma è solo un tram immaginario, solo frutto della fantasia di Roku-chan, ragazzo problematico che ne cura maniacalmente eppoi ne guida uno tutto suo, un tram che vede solo lui e cui, con la sua bocca, dà anche un suono tipico, un rumore di sferragliamento, un’onomatopea: “do-dès—ka-dèn—-do-dès–ka-dèn—-“.
Il labile e risoluto, poetico Roku-chan ed il suo finto tram sono la cornice e la parte più reale, razionale ed attiva del tutto. Non smettono mai dalla mattina alla sera di funzionare, impongono il loro ritmo. Incessante. Energico. Quotidiano. Una “corsa” dietro l’altra.
Kurosawa ci racconta 8 crude vicende parallele. Vite rassegnate. Vite segnate. Gente che ha perso la propria partita con la società, in assoluta discordanza col Giappone del boom economico che avanza a colpi di prodotto interno lordo, e ne è stata espulsa: dropout, ladri, abusatori sessuali (uno zio parassita che si fa mantenere dalla nipote), raggiratori; un padre barbone ed un figlio che vivono in una carcassa d’auto e campano col cibo raccattato dal ragazzo; due operai spensierati, costantemente ubriachi, che si scambiano le mogli, ed anche una sorta di filosofo, una specie di “sindaco” del luogo, un saggio artigiano, ossia Tamba-san che dà ironiche lezioni di vita (ad un ladro consiglia cosa rubargli: soldi piuttosto che oggetti che valgano ed autenticamente preziosi come ricordi, ecc.).
È una galleria di compiacenze, timidezze, storture, mancanze, amori traditi, amori infiniti (un operaio che accetta di buon grado figli non suoi; e che li ama da padre). Cose vere e cose inventate. Inventare dimensioni parallele per sfuggire alla propria solitudine, alla propria follia, mentire, costruire giochi mentali sembra poi essere una caratteristica predominante degli abitanti della bidonville: più di tutti del barbone che descrive al figlio tutti i capitoli della costruzione della “loro” immaginaria villa sul colle, dal cancello fino alla piscina. Moriranno entrambi del pesce avariato che il ragazzo ha avuto in dono da un ristorante: scarto degli scarti.
Il film è anche un racconto “sociale”, sull’abbondanza e sulla carestia, e quindi anche un racconto sul “potere”, sulla gestione dei luoghi, sulla ripartizione, sul controllo, sulla sorveglianza, ma non rendiamo tutto così automatico: Dodes’ka-den è anzitutto suprema poesia e affettuosa vicinanza umana. Di un uomo nei confronti degli altri uomini. E in questo, certo, anche tragedia lancinante. Tragedia raccontata fino in fondo, senza edulcorare, senza retorica della povertà, senza falso sentimentalismo, senza nulla nascondere delle miserie umane, ognuna delle quali ha legittimamente posto nella mise en scene di taglio teatrale che Kurosawa fa delle loro vite.
Vite inchiodate ad un luogo, da cui si potrebbe fuggire ma cui si è invece condannati. Per punizione morale e sociale.
L’unico modo per andarsene da lì è (forse) un artifizio. Chiudere gli occhi, raccontarsi una fiaba: salire così sul tram di Roku-chan (o sulle scope volanti di Miracolo a Milano, cambiando emisfero e tempo) ed andare; sono solo queste le magiche invenzioni con le quali si può (e si deve) uscire da ogni prigione. E dobbiamo essere grati a Kurosawa perché nel buio pesto della baraccopoli ha indicato un tragitto buono per tutti. O almeno per chi se ne vuole servire…
Enzo Lavagnini
Regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: "Un uomo fioriva" su Pasolini e "Film/Intervista a Paolo Volponi". Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, "Il giovane Fellini" , "La prima Roma di Pasolini". Attualmente dirige l'Archivio Pasolini di Ciampino
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