Il matto del villaggio che visse due volte. È il morso del “Re Granchio” che torna in sala

Torna in sala dal 15 febbraio a Roma al Cinea Troisi “Re Granchio” di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi: la storia del “matto” del paese che dalla leggenda plausibile deraglia nel fantastico. I registi proseguono la loro indagine sulla cultura popolare, ma poi ordiscono un radicale cambio di scena che diventa metafora. Un grande film italiano passato alla Quinzaine des réalisateur a Cannes  2021 che sta facendo incetta di premi a molti festival …

Re Granchio inizia come un Racconto dei racconti di Giambattista Basile riscritto in immagine da Garrone. Ma è un’altra storia: perché i registi Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi continuano la loro indagine unica nel cinema italiano oggi, quella sulla cultura popolare.

Il Lazio e la Tuscia sono il loro campo di battaglia: già nel precedente mediometraggio Il solengo inseguivano una figura mitologica, a metà tra storia e leggenda, una sorta di “into the wild” nella campagna laziale ricostruito dai racconti e dalle voci dei vecchi del paese.

Ma qui si spingono molto oltre, compiendo un passo avanti forse decisivo nel loro cinema. 

L’incipit di Re Granchio ci porta nel centro medievale di Vejano, ancora nella Tuscia, dentro la stessa etnografia: gli anziani intonano canti popolari e raccontano la storia di Luciano, il matto del paese, che abitò quei luoghi nel tardo Ottocento.

Il giovane, trasandato e alcolista, vive fuori dalla comunità e dalle sue convenzioni, alla vita pubblica preferisce fare il bagno nudo nello stagno. E si innamora di una ragazza del posto, ricambiato, anche se lui non è buon partito. Ma soprattutto Luciano è un polemista contro l’autorità: a partire da un cancello che deve restare chiuso, non accetta di inchinarsi ai potenti, respinge il vassallaggio al signore del paese. È questo il vero scandalo, non la barba lunga.

Nella prima parte la vicenda viene ricostruita in forma di aneddoto, affidata all’oralità degli anziani in funzione di coro, non solo metaforico, ma anche letterale quando intonano i magnetici canti contadini. Una storia mitica, certo, che cavalca l’archetipo e finisce in tragedia d’amore, ma tutto sommato plausibile.

Solo che a un certo punto i racconti si perdono, i fatti sfumano, le versioni divergono e i narratori non sanno bene come continuare… È qui che il film cala il suo colpo: in un cambio di scena radicale la storia letteralmente entra nella leggenda, il filo si sfilaccia, la realtà deraglia sul binario dell’immaginazione.

Ritroviamo Luciano emigrato nella Terra del fuoco, vestito da prete, con un obiettivo tanto chimerico quanto paradossale. Deve trovare un leggendario tesoro, nascosto nella terra rocciosa e arsa, e per farlo c’è un solo modo: seguire il percorso di un gigantesco granchio che è l’unico a conoscere la strada.

Può il re granchio portare alla ricchezza? La leggenda “vera” diventa pura fantasia.

 Cosa ci fa Luciano laggiù? Come ci è arrivato e perché? Re granchio diventa un altro film che si offre in forma di metafora, rendendo così la prima parte realistica propedeutica alla seconda immaginifica: Luciano, prima sfidante del potere, ora è totalmente coinvolto nella febbre dell’oro, invischiato nella caccia al tesoro per trovare la X sulla mappa prima degli altri.

Il “pazzo” in quanto ribelle prova a diventare il “ricco” che contestava. Ecco che il racconto potrebbe sembrare un canto sul crepuscolo degli ideali, il dirazzamento da ciò che crediamo con l’avanzare dell’età adulta, quindi dell’avidità. Dalla follia di Erasmo alla roba di Verga.

Ma quando il fu Luciano sembra ormai convertito alla brama di possesso, ecco un altro colpo di scena: una rivelazione che attiene alla natura stessa del tesoro, uno “shining” letterale ovvero una luccicanza, qualcosa che brilla nell’acqua. Dopo l’ideale, dopo la grettezza, alla fine del percorso c’è sempre l’amore: non in senso materico ma un fantasma d’amore, direbbe Dino Risi, oppure un ghost of love, direbbe David Lynch.

Tutto questo i registi lo fanno passando almeno da quattro generi differenti: il racconto ottocentesco, la storia d’amore, il fantastico e il western. E lo fanno con un attore memorabile: l’artista, pittore, sculture e assemblatore Gabriele Silli, protagonista che vive due volte, entrambe con un volto minerale, in cui è iscritto il dolore abitare nel mondo, reale e no.

Per Re Granchio, volendo, si possono trovare molti riferimenti: nella prima parte il cinema di Michelangelo Frammartino, in particolare Le quattro volte che esplose nel 2010 sempre alla Quinzaine, alcuni adattamenti del Decamerone come quello dei Taviani (Maraviglioso Boccaccio), i titoli che sfidano frontalmente l’Ottocento; nella seconda c’è il topos dei personaggi che si ammazzano per la valigetta dei soldi, il western all’italiana, la sparatoria nella neve de Il grande silenzio di Corbucci, e perfino le fantasmagorie di Raul Ruiz.

Ma la straordinaria forza del film è andare sempre da un’altra parte, vivere di vita propria, essere realmente indipendente (ecco cos’è il cinema indi, in barba all’etichetta): insomma, partire dall’oralità della leggenda per poi tessere un apologo sulla corruzione e infine evocare il potere dell’amore. Lo indica il re granchio: nel panorama fantastico il gesto più irreale è anche l’unico vero. Un grande film italiano.