La guerra fuori campo, la vita in primo piano. “I diari di mio padre” a trent’anni dal massacro di Srebrenica

Passato all’UnArchive Found Footage Festival “I diari di mio padre” opera prima del bosniaco Ado Hasanović. A trent’anni dal massacro di Srebrenica, durante il conflitto in ex-Jugoslavia, il regista  recupera i diari e le videotestimonianze di suo padre, tra i pochi sopravvissuti all’orrore della pulizia etnica. Attraverso il riuso dei materiali, compreso il girato del presente, Hasanović crea un’opera in cui dialogano linguaggi, epoche e memorie …

Guardare vecchi video in cui si è bambini è qualcosa di normale. Tutti lo abbiamo fatto almeno una volta nella vita: rivedere le riprese fatte, oggi con il cellulare, ieri con le videocamere VHS. Proprio la normalità del riguardarsi è il gesto con cui Ado Hasanović, regista bosniaco, porta spettatori e spettatrici attraverso il tempo, per raccontarci una storia privata, segnata dalla Storia, dalla guerra.

I diari di mio padre, primo lungometraggio di Hasanović (prodotto da Palomar), è stato presentato nella sezione Frontiere della terza edizione dell’UnArchive Found Footage Festival. Già proiettato a Roma in occasione del concorso “Amore e Psiche” per la trentunesima edizione del MedFilm Festival, questo documentario porta sul grande schermo il massacro di Srebrenica, avvenuto l’11 luglio del 1995, quando le truppe serbe invasero la città, enclave musulmana bosniaca, uccidendo circa 7-8000 uomini ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani, davanti alle truppe colpevolmente impotenti della missione Unprofor delle Nazioni Unite.

Una pagina di storia (affrontata dal cinema già nel film Quo vadis, Aida, della regista bosniaca Jasmila Zbanic), raccontata attraverso sguardo e voce di un sopravvissuto, un’opera costruita intrecciando le due grandi testimonianze prodotte dal padre del regista, Bekir, durante la guerra in Bosnia Erzegovina: videocassette e diari, immagini e parole.

Il racconto è semplice: un gruppo di ragazzi si ritrova parte di una guerra, comprano una videocamera, perché la loro storia non si perda. Il nome del collettivo è Dzon, Ben & Boys. Anni dopo, Fatima (moglie di Bekir) affida tutto il materiale a loro figlio Ado, perché Bekir vuole bruciare tutto. Così lo stesso Ado prende in mano la sua macchina da presa, per testimoniare il proprio rapporto con Bekir, per immortalare la sua sopravvivenza.

Il film grazie all’alternanza di epoche (un presente recente, un passato che sembra lontano) e di ambienti (una casa sempre più distrutta dalla guerra, una casa immersa tra animali, temporali e quotidianità) ci mostra sempre lo stesso uomo, Bekir, cambiato dal tempo ma identico nell’ironia. Il tempo della guerra è popolato da persone incerte sul domani e canti popolari per non dimenticare chi è morto ieri; il tempo della pace è scandito dalle domande di Ado al padre, incoraggiato a girare dalla madre Fatima.

C’è una scelta, però, nelle riprese di Dzon, Ben & Boys: mostrare la vita dei cittadini durante la guerra, non la guerra. Lotte e feriti sono messi in scena dagli stessi ragazzi, per mostrare cosa fare in caso a qualcuno servisse soccorso; altri momenti sono di felicità e risate, di musica anche, finte chitarre suonate come le rock star. Forse perché la guerra non si può riportare sullo schermo. Ecco, quindi che intervengono le parole progressivamente più crude, i diari scritti da Bekir, letti dalla voce off di Ado. La scrittura diventa un mezzo per raccontare l’invisibile, mentre le immagini raccontano degli indicibili sorrisi.

La morte, vera, emerge violenta solo in due istanti: un gruppo di serbi che fucilano alcuni prigionieri bosniaci, azione documentata da una troupe serba; Bekir trasportato su un’ambulanza, attimo catturato da una telecamera di sorveglianza. Riprese con uno status di oggettività, che si aggiungono al gioco di linguaggi che connota il montaggio. Padre e figlio, entrambi registi e attori di quest’opera, lasciano la cruda verità nel fuori campo delle loro immagini, concentrandosi sul racconto della loro stessa esistenza. Ma questo racconto è frutto di quel fuori campo, che riemerge nelle immagini di repertorio, nella videosorveglianza.

La testimonianza è lo scopo fondante del film: linguaggi diversi usati per esprimere il dialogo tra momenti storici, tra familiari, tra città, tra una futura difficile pace e l’immediatezza della guerra. Immagini e parole create da Bekir per lasciare un ricordo di sé alla famiglia, incrociate con la visione di Ado (concreta nel suo guardare le vecchie VHS, artistica nella realizzazione del film) rendono quest’opera una riflessione sullo sguardo, sulla responsabilità che detiene nel creare una propria identità, nello scoprire quella altrui.

L’attualità e la responsabilità di parlare di questa storia è presente anche nel romanzo di Gianluca Battistel Una settimana di luglio (edito da Alphabeta), in cui realtà e finzione collaborano per creare un racconto estremamente crudo attraverso voci immaginarie, derivanti dalle testimonianze reali dei sopravvissuti. A trent’anni dal massacro cinema e letteratura evocano l’importanza di non dimenticare, di raccontare con ogni mezzo.


Valentina Scarfò

Tirocinante Università La Sapienza


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