Larrain, Sorrentino & Co. Registi star ai tempi del lockdown reinventano il cinema (corto) su Netflix
Su Netflix (dal 30 giugno) l’antologia di corti “Homemade”, 17 episodi girati da altrettanti registi durante i (e ispirati dai) rispettivi lockdown. Pablo Larraín (anche produttore con la sua Fabula insieme all’italiana The Apartment di Lorenzo Mieli), Ladj Ly, Paolo Sorrentino, Kristen Stewart, Sebastián Lelio, Maggie Gyllenhaal e altri ancora, per un affresco plurale sui tanti modi di vivere un momento storico inedito quanto destabilizzante: e, soprattutto, sulla capacità del cinema di reinventare poeticamente se stesso per raccontarlo…
Se qualcuno non se ne fosse accorto, il cinema durante il lockdown (anzi, durante i lockdown) non si è fermato. È stato sconvolto, la sua industria semi-paralizzata, con tutte le gravi conseguenze su chi ne fa parte. Ma esprimersi attraverso il cinema ha costituito, nei momenti peggiori dell’emergenza socio-sanitaria da Covid-19, una modalità viva non solo per testimoniare, ma anche (e soprattutto) per (re)agire, (ri)elaborare, (ri)pensare. Grazie alle nuove tecnologie, certo, ma anche grazie a una non scontata apertura di molti artisti alla (inedita) realtà, al racconto, al progetto. Lo dimostra, tra gli altri, Homemade, antologia di 17 corti d’autore (dal 30 giugno su Netflix) realizzati da altrettanti registi durante i rispettivi periodi di quarantena in diversi angoli del mondo.
Discutibile la scelta di presentare i vari “episodi” (lunghi dai quattro agli undici minuti) separati, come le puntate di una serie tv. Andrebbero invece lasciati scorrere uno dopo l’altro (senza il logo della piattaforma streaming e del progetto a spezzare ogni volta l’esperienza), rafforzando il senso di unità nella diversità: come nei migliori tra i recenti film collettivi, dove il cinema (e i tanti modi di intenderlo) proietta nella condizione chiave del presente (l’interconnessione di luoghi e punti di vista) riflettendo sui grandi eventi della Storia (11-9-2001) o su se stesso (Chacun son cinéma). E fa entrambe le cose, Homemade. Perché stavolta il momento epocale investe direttamente (anche) il cinema e chi lo pratica.
Ogni finestra su ogni quarantena, perciò, rappresenta anche un diverso tentativo del linguaggio filmico (e di chi per mestiere lo maneggia) di mettersi in gioco per affrontare il presente, per non arrendersi né all’afasia né alla retorica. Così Ladj Ly (nel primo, bellissimo corto) recupera il drone de I miserabili per uscire, letteralmente, dall’isolamento e mostrarci le conseguenze della pandemia (che non è stata uguale per tutti) sull’umanità delle “sue” banlieues. Una piccola grande lezione di cinema dove forma e contenuto rinunciano a distinzioni gerarchiche in nome di un rinnovato sguardo sulla realtà. Come nella deliziosa mini-commedia sentimentale che è Couple Spits Up While Lockdown LOL (di Rungano Nyoni, da Lisbona), dove la crisi di una coppia in isolamento è narrata in modalità Screenlife, attraverso video e messaggi delle chat telefoniche.
O come in un altro degli episodi più riusciti, Last Call del cileno Pablo Larraín (anche ideatore del progetto col fratello produttore Juan de Dios insieme a l’italiana The Apartment di Lorenzo Mieli): l’epilogo di un latin-lover fuori tempo mostra la sua tragicomica inadeguatezza anche negli scatti e negli sguardi disgiunti di una videochiamata o nella sagoma di un’infermiera sullo sfondo (un modo originale di toccare, tra l’altro, il dramma delle strutture per anziani durante il virus). E anche chi, come Paolo Sorrentino (nell’episodio che prende in prestito il titolo di Céline, Viaggio al termine della notte), ripropone i propri vezzi autoriali, trova spunti nuovi nelle limitazioni del momento: così l’incontro impossibile tra Papa Francesco ed Elisabetta II ha la sua linfa poetica nella scelta di far “interpretare” da pupazzi i suoi protagonisti isolati-bloccati (da prima del lockdown) nel proprio status di simboli.
Alcuni sperimentano con i generi, ribadendo come questi non siano un ostacolo (anzi) per un cinema che voglia riflettere sulla realtà in cambiamento: in questa direzione vanno l’horror Annex (di Antonio Campos, da New York), la distopia apocalittica Penelope (di Maggie Gyllenhaal, dal Vermont, con l’attore-marito Peter Sarsgaard) e il geniale meta-musical cileno Algoritmo di Sebastián Lelio. Altri, invece, espongono a modo loro la quotidianità straniata del privato: come nel divertente episodio surreale del tedesco Sebastian Schipper (Casino) o nel corto di Kristen Stewart (Crickets), dove l’attrice-regista insonne riflette (anche attraverso i jump-cuts) sul tempo frammentato in tempi (morti) del suo lockdown.
Spesso (e più prevedibilmente) gli autori mettono in primo piano i propri affetti, in particolare i figli. Ma, anche qui, il valore (aggiunto) sta nella varietà di punti di vista e scelte espressive: c’è chi, come lo scozzese David Mackenzie in What is Essential?, sottolinea il peso di vivere l’evento «più globalmente totalitario della storia umana» e chi (come la britannica sikh Gurindher Chadha in Unexpected Gift), malgrado le perdite (anche personali), celebra il «dono inaspettato del tempo» portato dalla quarantena.
C’è chi interpone il filtro della propria voce e della propria memoria (Rachel Morrison in The Lucky Ones) e chi al contrario riduce al minimo la mediazione, come Natalia Beristáin (in Espacios, dal Messico) e soprattutto la coppia libanese Nadine Labaki e Khaled Mouzanar, che in Mayroun and the Unicorn si limitano a riprendere il gioco della figlia, suggerendo come l’immaginazione infantile possa rivelarsi più forte (anche) di un trauma globale.
Homemade, allora, riesce ad essere, anche nella discontinuità tra episodi più e meno memorabili, un atto d’amore del cinema alla pluralità del reale (c’è anche il Giappone di Naomi Kawase in Last Message, dove al lockdown si sostituisce una non meno difficile «autodisciplina») e ai tanti modi del cinema di raccontarlo. Dove anche la ricetta per i ravioli può diventare una chiave di lettura espressiva (come nel corto dalla Cina di Johnny Ma). E dove l’arte riscopre (e fa riscoprire) la sua capacità di ridefinire le prospettive (e focalizzare i cambiamenti di prospettiva): come ci ricorda la voce di Cate Blanchett nell’ultimo episodio, Ride It Out (di Ana Lily Amirpour), un giro in bicicletta che (tra grandangoli e inquadrature a distanza) porta (e documenta) lo straniamento nei pressi di una Hollywood desolata. A emblematico suggello di un film che è (anche) un manifesto su come il cinema può, deve (e sa) rimettersi in gioco, specie nei momenti peggiori.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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