“Le otto montagne” il buon cinema dal respiro internazionale (e letterario) trionfa ai David 2023

Miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia.  “Le otto montagne” dei belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeesh, trionfa ai David 2023. Tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, premio Strega 2017 è un bell’esempio di cinema dal respiro internazionale, lieve e severo, faticosissimo da girare in quelle location quanto nutriente per lo sguardo e per le emozioni. Un’amicizia ad alta quota tra un ragazzino di città e l’ultimo ragazzino rimasto nel paese di montagna che si sta spolando. E magica è la fusione tra i due interpreti: Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Già Prix du Jury (ex aequo con l’asino circense di Eo del polacco Jerzy Skolimowski) a Cannes 2022 …

 

La chimica nel cinema non riguarda solo le coppie di sesso diverso. Buona metà del fascino di Le otto montagne, fresco di trionfo ai David 2023 e vincitore a Cannes 75 sotto bandiera italo-franco-belga, sta nel sodalizio ritrovato tra Luca Marinelli e Alessandro Borghi, la coppia di Non essere cattivo.

L’altra metà sta nel sentimento della montagna, che è fatica e conquista, come ben sa chi la ama. Scritto e diretto dai belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeesh, consacrati dieci anni fa da Alabama Monroe-Una storia d’amore (lei solo sceneggiatrice), realizza l’impossibile trasferimento su schermo del bel romanzo d’esordio omonimo di Paolo Cognetti, premio Strega nel 2017 (Einaudi Editore).

È un film fuori norma, che “respira”, nel verso senso del termine, il sentimento delle vette, dei pascoli, dei laghi segreti della valdostana Val d’Ayas, dominata dal Monte Rosa, che è il luogo del cuore di Cognetti. È questa bellezza il terzo protagonista di Le otto montagne. Solo quelli di città parlano di Natura, spiegherà acutamente Borghi-Bruno, che alla montagna appartiene con ogni fibra del corpo. Natura è un concetto astratto. I montanari indicano le cose che vedono: i pascoli, i boschi, il lavoro senza respiro negli alpeggi in quota.

Scrive Cognetti che “l’amicizia è un luogo dove metti radici e che resta ad aspettarti”. È la chiave di questa storia, imperniata sul legame indissolubile tra Pietro e Bruno, uniti per sempre da un primo incontro da ragazzini che segnerà indelebilmente le loro esistenze.

Pietro (da grande Luca Marinelli) è un undicenne torinese in vacanza, Bruno (da grande Alessandro Borghi) è l’ultimo bambino rimasto in paese, non avrà adolescenza, a 13 anni emigrerà col padre per fare il muratore. Solo moltissimi anni dopo Pietro scoprirà il conforto offerto a Bruno da suo padre (Filippo Timi), con cui da tempo ha interrotto i rapporti. È un processo di comprensione e riconciliazione tardivo esposto con tenerezza, senza artifici e senza sviolinature, uno dei piccoli grandi “universali” che il film affronta.

Costruendo insieme la baita che il padre sognava, i due faranno di questo mucchio di pietre il crocevia segreto di percorsi agli antipodi, Pietro scrittore sulle strade del Nepal (da un mito di “quei” monti deriva il titolo), Bruno sempre là, perché questo è il suo posto e la sua meta, a mettere su famiglia e a perderla poi, perché tanto duro lavoro non gli basta per far quadrare i conti e per campare.

È un film lieve e severo, faticosissimo da girare in quelle location quanto nutriente per lo sguardo e per le emozioni. È quasi magica la fusione di Marinelli e Borghi, costruita sui silenzi, sullo sforzo comune, più che sulle parole: concreta e non astratta, proprio come vogliono i montanari. Un potenziale che Claudio Caligari aveva intuito perfettamente sette anni fa, mettendoli al centro di quel film speciale che non ha potuto ultimare.

Con qualche malizia si potrebbe osservare che ci volevano due belgi per raccontare bene una storia italiana. Forse, chissà, perché bisogna salire in alto per riconoscere gli elementi primari che orientano le nostre rotte.

Un microscopico, marginale appunto, che non riguarda certo solo questo film: dobbiamo sempre per forza far appello alla musica americana per far volare le immagini? Non si può lavorare su spartiti che abbiano qualcosa in comune con i nostri diversi paesaggi? Non è un piccolo segno di subalternità culturale da cui non vogliamo affrancarci?

Fonte Huffington Post