La scalata di Paolo Cognetti attraverso “Le otto montagne”. Diventato (anche) un bel film
“Le otto montagne” (Einaudi) il bell’eserdio di Paolo Cognetti vincitore dello Strega 2017 è diventato un film presentato al festival di Cannes. Un romanzo di grande forza e intensità di scrittura, un libro speciale in cui l’autore ha scalato la montagna per scendere e dare forza alla sua anima. Paolo Cognetti è stato tra i protagonisti dell’edizione 2013 del Premio Bookciak, Azione! con la raccolta di racconti “Una cosa piccola che sta per esplodere”…
La sensazione di un sotteso desiderio di non solo carta che così spesso trasuda dalla letteratura contemporanea, già (e non velatamente) predisposta ad un futuro di fiction e quasi sempre mal condita da risvolti thriller, mi scatena da subito un’irritante allergia.
Simile a quella che mi prende al cinema per certe scene di sesso o di violenze superflue – imposte solo e chiaramente per far soldi – che, invece di attizzare, smorzano i toni anche di un film dignitoso.
Di tutto questo, per fortuna, neanche l’ombra nel bell’esordio nel romanzo di Paolo Cognetti, anche se nel curriculum dello scrittore non ancora quarantenne, oltre a una Laurea in Matematica c’è la Scuola Civica di Cinema frequentata a Milano che ha sviluppato il suo interesse espressivo soprattutto per il documentario.
Bastano le prime due pagine de Le otto montagne (edito nel 2016 da Einaudi) per capire la forza e intensità di scrittura dell’autore. Con tratto asciutto, essenziale, introspettivo, dipinge il padre, la madre, il loro rapporto con la Natura e la sua venuta al mondo.
Poche parole, ma profonde e fortemente evocative, come è d’uso tra veri montanari che non si perdono in chiacchiere.
Il libro – in buona parte autobiografico, scritto a penna sopra i 2000 metri nella sua baita in val D’Ayas, (sopra Brusson, Val D’Aosta) dove, esente da cellulari, tablet o computer, Cognetti si rifugia – oltre alla sua famiglia di radici dolomitiche che gli ha trasmesso la passione per i monti, ha soprattutto nel cuore la storia di un’amicizia tra due ombrosi e solitari ragazzini: Pietro, il protagonista, che ai piedi del Monte Rosa viene a passare tutti gli anni le vacanze con i suoi genitori, e Bruno, un montanaro dai capelli color paglia, che di vacanze non ne fa.
È lì che il padre “sempre in gara con qualcuno o qualcosa” “inizia” e trasmette a Pietro la passione per le vette; è lì che invece la sua mamma accogliente gli offre l’occasione di allacciare un’amicizia che arricchirà la sua vita.
Il collante tra i due, così diversi, ma affini, l’offrirà la montagna: gli aspri sentieri da esplorare in totale libertà, i suoi laghi improvvisi, le strutture di baite abbandonate, i mulini, i ruscelli e gli alberi e i panorami che Cognetti descrive con un talento inusuale. Che deve, con dichiarata gratitudine alle letture di Levi, Rigoni Stern, ma anche Corona, scrittore montano (e forse ormai anche mondano) che appartiene ad altri monti e valli: quelle dei suoi genitori.
Ma cosa rende questo libro speciale oltre – come si è detto – la dote non diffusissima di un’ottima scrittura? Il modo con cui tratta e affronta temi dolorosi, eterni e al contempo attualissimi: il rapporto e la comprensione spesso tardiva dei genitori; quello impervio col mondo del lavoro; l’accesso alle professioni, oggi quasi impossibile per i giovani che troppo spesso scatena in loro tragiche depressioni; l’estrema difficoltà, anche per queste ragioni, di crearsi una famiglia o di mantenerla.
Ma lo rende speciale anche il sogno che trasmette il romanzo. Tanti anni fa si usava dire: “fermate il mondo voglio scendere”. E non è questo che ormai sogniamo in tanti? Fuggire dai troppi orrori nazionali e internazionali, dagli sguaiati frastuoni vacanzieri, dagli ingorghi del traffico, dalle beghe politiche, dalle persecuzione delle e-mail e dei call center, dai risponditori automatici, insomma da una truffopoli sempre più invasiva?
Ed è quello che a un certo punto della sua vita ha fatto Cognetti P. (Paolo o Pietro che sia). Solo che lui ha scalato per scendere e dare forza alla sua anima. Ha saputo affrontare a testa alta la sua solitudine recuperando al contempo l’uso del corpo e, grazie ad una “bizzarra” eredità che gli ha lasciato il padre, un rudere di baita isolato in alta quota, ha lavorato con le sue sole mani fianco a fianco al suo amico per ri-costruirsi e ri-costruirla.
Lascio al lettore il piacere della scoperta del titolo del libro. E di parecchie altre cose.
Niente thriller nel testo, ma il mistero che offre spesso la vita sì. Insieme alla forza e al desiderio di scalarla. Cosa che lo rende un classico. E ora anche il piacere di vedere il film che ne hanno tratto i belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeesh presentato in concorso al festival di Cannes.
9 Luglio 2016
“La scuola cattolica” stravince lo Strega e diventa film
Il libro di Edoardo Albinati sul podio del 70esimo Premio Strega, consegnato…
11 Giugno 2015
“La ferocia” in testa ai finalisti dello Strega
È il romanzo di Nicola Lagioia, che avevamo già segnalato nella nostra…
18 Ottobre 2015
La “Passione” di Anderson per la musica indiana
Tra documentario e sperimentazione, tra musica e immagini, arriva alla Festa…