L’età acerba di fronte alla malattia. “Quell’estate con Irène” porta Carlo Sironi alla Berlinale
“Quell’estate con Irène“, secondo film di Carlo Sironi, arriva alla Berlinale nella sezione Generation, che forse gli sta anche un po’ stretta. È la storia della fuga di due amiche verso il mare in un’estate giovanile, in cui cercheranno di scoprire il mondo e di recuperare gli anni e le esperienze mancate a causa della loro malattia…
«Non ci sono altre vite». È la frase semplice, ma non necessariamente banale, che spiega bene l’idea alla base di Quell’estate con Irène, nuovo lavoro di Carlo Sironi, il secondo dopo Sole, che gli era valso il concorso Orizzonti a Venezia, nonché un Nastro d’argento e un EFA come miglior esordiente. Questa volta il regista trova la via di Berlino, nella sezione Generation della 74a Berlinale.
Il film si veste di un ritmo compassato per riprendere un tema certamente non nuovo: la fuga in tandem di due amiche oltre i limiti, in questo caso imposti dalla malattia. Le due protagoniste sono giovanissime e questo permette a Sironi di addentrarsi anche nella sfera giovanile, in quel modo affamato e un po’ goffo di approcciarsi al mondo per la prima volta.
Clara (Maria Camilla Brandeburg) e Irène (Noée Abita) si conoscono infatti in una specie di gruppo vacanze per ragazze e ragazzi in convalescenza. Le attività sono quasi tutte di gruppo e non particolarmente esaltanti. Oltretutto, aleggia sempre il rischio che qualcuno possa sentirsi male da un momento all’altro. Alle due basta poco tempo per scegliere di scappare insieme verso il mare e cercare di recuperare gli anni e le esperienze perse in terapia.
Quell’estate con Irène si fa forte di una fotografia estremamente ricercata, realizzata dall’ungherese Gergely Puhárnok, che si inserisce bene in un filone estetico abbastanza apprezzato negli ultimi anni. Il film non riesce però ad affiancare a questa impalcatura visiva uno stesso effetto con le sue interpretazioni e i suoi dialoghi. Al punto che si avverte quasi un distacco tra le inquadrature ricercate e la storia che le abita.
Capita raramente che di un lungo si possa pensare sarebbe stato preferibile un corto, eppure in questo caso ci sembra che la forma più breve avrebbe saputo condensare un po’ più efficacemente la carica emotiva. Nell’ora e mezzo totale, invece, il film non riesce a evitare la sensazione di averla un poco diluita.
Lodevole è in ogni caso l’aver evitato il rischio di un film “di reparto”, incentrato sulla malattia e imbottito di retorica. Sironi, che il film lo ha anche scritto assieme a Silvana Tamma, è riuscito bene a divincolarsi, raccontando la voglia di vivere delle sue due ragazze e il precario equilibrio delle loro vite, in bilico tra desiderio di libertà e condizione fisica, senza appiattimenti.
La sezione satellite a cui è stato destinato gli si addice. Generation, che a sua volta si divide nei due tronconi Kplus e 14plus, è pensata esattamente per storie di infanzia e adolescenza. Ed è vero, inoltre, che vanta anch’essa un concorso e una giuria di tutto rispetto.
Il lavoro di Sironi resta interessante, con un evidente attenzione per il fattore visivo che è molto superiore alla media, specie nel cinema italiano. Le belle promesse del suo esordio non sono disattese con il suo secondo film, anzi. E la curiosità per i suoi prossimi è ancora alta.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.