Ligabue, con Elio Germano, dipinge anche l’Orso d’argento. E arriva in sala
In sala dal 4 marzo (per 01 Distribution) “Volevo nascondermi”, il film di Giorgio Diritti che ha regalato ad Elio Germano l’Orso d’argento e che arriva in sala dopo lo “slittamento” dovuto all’emergenza corona virus. Un’interpretazione appassionata che, dietro a un trucco prostetico, l’ha reso identico al celebre autoritratto del pittore naif. Un po’ come il Favino-Craxi di Amelio. A chi andrà a vederlo al cinema, consigliamo anche la versione del “Ligabue” meravigliosamente interpretato senza trucco dal grande attore appena scomparso, Flavio Bucci …
A sdoganare dal corona virus ce l’ha probabilmente fatta lui: il Germano che si è infilato nel ruolo di “el tudesc” (versione romagnola de “il tedesco”) con sentita convinzione portando a casa da Berlino, per la sua interpretazione, un bell’Orso d’argento.
“Basta con la paura: riapriamo le sale” ha detto al festival, ritirando il premio, per stimolare l’uscita di tanti film bloccati dall’epidemia e, ovviamente, anche Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, di cui è protagonista.
Tanto per cominciare, ad applicare bene le intenzioni del titolo, Elio Germano si è nascosto dietro un trucco prostetico che, con una perfetta plastica, l’ha reso identico all’autoritratto che Antonio Ligabue ha continuato a fare come un mantra di se stesso.
Già, perché la quotidiana e lunghissima tortura di almeno quattro o cinque ore, a cui gli attori si sottopongono per entrare nei ruoli, sembra aiutare non poco ad accendere all’interiorità del personaggio e dunque a farlo rivivere.
Tesi ampiamente sostenuta anche dal più che immedesimato Pierfrancesco Favino in Hammamet di Amelio e che il Germano, già iniziato alla fatica dalla gobbetta e sofferenza di Leopardi, condvide in pieno.
Il film si apre con un primo piano del “tudesc”, di cui si vede soltanto un inquieto occhio scuro. È Antonio Ligabue, nascosto a ‘mo di burqua da una spessa cappa nera, rimpatriato in Italia, nella bassa Padana – patria dell’ex marito Laccabue della madre defunta -, dalla Svizzera, dove la giovane nubile, fuggita incinta dalle terre agordine, l’ha fatto nascere nel 1899.
Rimpatriato perché diverso, deforme e disturbante. E per di più già rifiutato dalla madre che, a solo un anno, lo molla in adozione ad una coppia di non disinteressati aspiranti genitori che a loro volta lo ripudiano. Soffre di rachitismo, di depressione psicotica (con conseguenti ricoveri in manicomio), di una bizzarra malattia all’udito che lo fa uscire di testa sentendo certi rumori, e soffre soprattutto per la spesso indelebile “ferita dei non amati” da cui anni fa ha scritto un suo compatriota, Peter Schellenmaum, nato a Winterthur nel 1939, che ha diretto a Zurigo l’Istituto C.G. Jung e ha poi fondato l’Istituto di psicoenergetica.
E così Toni rifiutato, o quantomeno, dileggiato da buona parte dei rozzi paesani di Gualtieri, trova rifugio in una capanna isolata sulle rive del Po, dove vivrà come un selvaggio, senza nessuna protezione contro le intemperie, fino all’incontro casuale e fortunato con un artista generoso: lo scultore Renato Marino Mazzacurati che lo avvicinerà al gioco primitivo della pittura con cui da secoli gli esseri umani fin da piccoli si esprimono.
Diventerà il suo linguaggio, riuscirà energicamente a tirar fuori quella potente forza propulsiva che a volte nasce da antiche cicatrici sanguinanti. E avrà successo con le sue verdissime giungle padane, forse senza Orsi d’argento, ma ricche di feroci tigri, serpenti, uccelli e tanti altri animali. Temi che, insieme a un’ossessione per un tipo di verde molto preciso e particolare, hanno appassionato anche Henri Rousseau, naif francese detto “il doganiere”, nato a Laval una cinquantina di anni prima di lui, ma altrettanto sfortunato.
E, col successo, “el tudesc” avrà anche molti improvvisi amici, come da sempre succede a chi ha successo. Molte motociclette rosse e un’auto con autista. Ma non l’amore, da sempre desiderato, da una donna.
Perfettamente ambientato, dal bolognese Diritti, che quelle zone padane le conosce bene, Elio Germano veste il dolore, la rabbia, lo stupore, ma anche l’orgoglio di questo autistico diverso con sentita aderenza fino alla morte a 66 anni, quando un’ emiparesi, che gli colpisce il braccio destro, gli toglierà anche lo sfogo e la gioia della creazione.
Ultima annotazione: a chi andrà a vederlo al cinema, consigliamo, prima o dopo a piacere, anche la versione del “Ligabue”, meravigliosamente interpretato nel ’77, senza trucco prostetico, dal grande attore appena scomparso, Flavio Bucci, che Zavattini ha sceneggiato traendolo da un suo racconto in versi. Miniserie in tre puntate diretta da Salvatore Nocita che si può vedere o rivedere su Raiplay.
Germano ha più volte dichiarato di aver scelto di non vederlo per non farsi condizionare. Sinceramente non capiamo il perché.
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