Madame Bovary, la magnifica ossessione del cinema

Da Renoir a Chabrol il capolavoro di Gustave Flaubert ha conosciuto infinite trasposizioni cinematografiche. L’ultima quella di Sophie Barthes, presentata al Telluride Film Festival in Colorado e in arrivo nelle nostre sale il prossimo autunno…

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Mia Wasikowska, la “nuova” Madame Bovary

La nuova versione di Madame Bovary, firmata dalla regista Sophie Barthes con protagonista Mia Wasikowska, ripropone il confronto con il capolavoro di Flaubert. Il film, presentato al Telluride Film Festival in Colorado e uscito nelle sale americane il 12 giugno 2015, arriverà in Italia nel prossimo autunno.

È solo l’ultima trasposizione del romanzo apparso nel 1856: nel lungo elenco, che comprende anche serie tv, basti ricordare le versioni di due colossi, la prima Madame Bovary di Jean Renoir (1933) e la rilettura al nostro tempo di Claude Chabrol, Madame Bovary (1991) nel corpo di Isabelle Huppert.

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Valentine Tessier in Madame Bovary di Jean Renoir

Vista in anteprima, la pellicola della 41enne regista francese naturalizzata americana si offre come un pensato gioco di attori, disposti con intelligenza nei rispettivi ruoli: oltre alla protagonista, il volto impotente di Charles Bovary è affidato a Henry Lloyd-Hughes, i due amanti manovrati da Emma sono rispettivamente Logan Marshall-Green (Boulangier) e soprattutto Ezra Miller (Dupuis).

L’egotismo di Paul Giamatti incarna monsieur Homais, il dottore falsamente illuminato, mentre la retorica untuosa di Rhys Ifans dà vita al mercante ingannatore Lheureux. Il padre di Emma, che impartisce la benedizione/unzione al matrimonio, è risolto nel cameo di classe di Olivier Gourmet.

Da subito la versione di Barthes non si limita alla reinstallazione dell’originale, ma vuole proporre uno sguardo peculiare sulla storia. Dunque l’attualizzazione stilistica di Flaubert parte dall’inizio, con la trovata “contemporanea” del flashforward: l’intreccio comincia mostrando la fine della storia, con la ripresa di Emma morente che innesca una struttura circolare, si apre e chiude allo stesso modo, a sottolineare la conclusione inevitabile della parabola.

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Isabelle Huppert. Madame Bovary per Chabrol

Barthes sfronda dal testo un elemento rilevante: qui Emma non partorisce una figlia e, quindi, non mostra la sua pietà per la prosecuzione della specie, né compatisce la miseria futura della neonata perché femmina. Scrive Flaubert: “Una donna ha continui impedimenti (…). La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene”.

La pellicola si discosta poi dal romanzo in alcune fondamentali sfumature che ne variano la concezione di fondo. Così il francese descrive la borghesia di campagna dagli occhi di Emma: “È un’accozzaglia di vecchi cretini dal panciotto di flanella e di bigotte con scaldino e rosario in mano, tutti accaniti a rifischiarci: ’Il dovere, il dovere!’ Eh, perbacco! Il dovere è sentire ciò che è grande, privilegiare ciò che è bello e non inchinarsi a tutte le convenzioni”.

In questo film invece non c’è il fallimento conclamato di questa borghesia, bensì il tifone Emma che interviene e spazza via tutto. Così i suoi amanti sono gusci vuoti, episodi formali, anche il giovane “più amato” nella veste di Dupuis/Miller, intesi esclusivamente come gradini per salire la scala sociale. E così Charles Bovary, tutto sommato, non è un inetto colpevole – malgrado la sua medietà – ma diventa perfino vittima, risucchiato al centro del vortice.

Il rito della piccola borghesia è sempre ridicolo, patetico nelle ambizioni frustrate, tragico nella dimostrazione empirica di una conoscenza medica che non c’è. Ma questo non costruisce per Emma un alibi: la sua è una tragedia totale, che tutto travolge, le figure intorno sono burattini di cui tiene le fila e quando vuole accartoccia.

L’avanzare del dramma – naturalmente – si concretizza nel suicidio, ingerire il veleno e darsi la morte, che Barthes risolve con la “scomparsa” di Madame Bovary: Emma è cristallizzata nella foresta, in una posa minerale che ne decreta il fallimento perché la condanna all’immobilità, dopo il tentativo di “muoversi”, di cambiare la sua condizione. La cineasta, in un atto pudico, omette il ritrovamento del corpo e sceglie di inscenare la ricerca, in una sintesi visiva, con le torce come lucciole che si arrampicano verso il cielo.

 

La regia di Sophie Barthes, corretta e centrata sulla protagonista, divaga nelle trasfigurazioni sul corpo/simbolo di Emma che si muove vorticoso, ripreso in azione (quasi) continua, in fuga da sé e alla ricerca del movimento che brama, magnificato dalla colonna sonora di Galperine. Non è – come in Flaubert – la spaccato complessivo di una società né una lente spietata sull’universo ’800. E’ la fotografia di un’ascesa fallita, della distanza tra ambizione e realtà, del desiderio sconfitto di un singolo che lo conduce alla morte. La fine di Bovary non innesca l’apocalisse sociale, ma la dissolvenza della sua idea del mondo: la tragedia di Emma.

 

Menzione speciale per Mia Wasikowska, la migliore attrice della sua generazione: essa esegue Emma Bovary in una prova senza sbavature, azzeccando ogni tono, rimodulando il drammatico nel suo caos calmo, suggerendo un perenne tramestio intimo a riposo dietro la parete della forma. “Nel fondo della sua anima, Emma aspettava che qualche cosa accadesse. Come i marinai in pericolo, volgeva gli occhi disperata sulla solitudine della sua vita e cercava, lontano, una vela bianca tra le brume dell’orizzonte”.