Marlina, novella sposa alla “Kill Bill” in salsa indonesiana
In sala dal 18 gennaio (per Lab 80 Film) “Marlina, omicida in quattro atti” della regista indonesiana Mouly Surya. La protagonista è una donna abusata che uccide i suoi torturatori in un racconto a due facce: omaggio al genere, il revenge femminile in forma di western, e l’affresco di un Paese maschilista endemicamente abituato alla violenza. Quasi un novella sposa alla “Kill Bill” che agisce per interposta katana…
Marlina è una donna di Sumba, Indonesia. Il corpo del marito morto è ancora in casa, lei sta risparmiando per seppellirlo col rito tradizionale. Un uomo si presenta alla sua porta, la informa che insieme ai compagni è venuto per derubarla di soldi, animali e infine stuprarla. Marlina non cede: mentre prepara la cena per gli uomini decide di avvelenarla. Al suo abusatore, invece, riserva un colpo di spada che lo decapita di netto durante l’atto sessuale. Così l’incipit di Marlina, omicida in quattro atti, l’ultimo film di Mouly Surya già presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2017, che arriva nelle sale italiane giovedì 18 gennaio distribuito da Lab 80.
La regista indonesiana, nata nel 1980, parte dalla realtà e la mette in narrativa: “Oggi abbiamo diverse figure di donne forti in Indonesia (…). Ma sull’isola di Sumba ho conosciuto una donna, un’insegnante di nome Marlina, che si è difesa con tenacia dopo essere stata accusata di aver dato scandalo a causa di un video in cui ballava. Mi è stata d’ispirazione”.
Ma non è certo il realismo la sostanza del racconto, né il tema annoso e spesso banalizzato della violenza sulle donne: qui al contrario, infatti, la violenza non si compie perché è la donna a rivoltarsi, a reagire prima di subire. Marlina uccide i suoi torturatori perché è l’unico gesto possibile: ha introiettato il linguaggio intrinseco nel contesto, quello dell’omicidio, il cane mangia cane già sottinteso nella cornice senza una costruzione retorica che lo determini: così è, nella natura delle cose, e dunque l’atto omicida risulta obbligato. Per sopravvivere bisogna ammazzare.
Marlina, novella sposa killbilliana che agisce per interposta katana, inizia il suo viaggio: si porta dietro la testa mozzata dello stupratore, inizialmente non la nasconde neanche, rivendicando la palese liceità del gesto. Il suo percorso frequenta archetipi del cinema occidentale (ricorda, per esempio, Melanie Griffith in Crazy in Alabama di Banderas), omaggiando i generi come il road movie, il revenge femminile, il western che colloca l’eroina a cavallo.
Essa in realtà cerca la legge ma non la trova, ottenendo dall’autorità solo distrazione: segue un percorso pulp nella grafica e sentimentale nell’intimo, dove si trova una figlia surrogata che porta lo stesso nome del proprio figlio vero. E, soprattutto, incontra una donna incinta che non riesce a partorire: inchiodata alla propria gravidanza “impossibile” di dieci mesi, essa è vittima della superstizione che crede il nascituro disabile. È un doppio di Marlina, ma non ancora iniziata alla sopravvivenza: l’unica soluzione – anche per lei – è introiettare la lingua della violenza, compiere la propria decapitazione. Solo quando ucciderà l’ennesimo aggressore potrà finalmente partorire.
Mouly Surya respinge la tentazione neorealista, di mera registrazione dello stato del Paese, preferendo coltivare il discorso immaginifico, come nel leitmotiv onirico del corpo senza testa che accompagna il viaggio della donna. Allo stesso tempo – però – incide un affresco dell’Indonesia oggi: maschilista e atavica, ostaggio della superstizione e del facile pregiudizio.
Nessuno di questi fili viene mai apertamente enunciato, ognuno è tirato per mezzo della costruzione narrativa. Il mirabile risultato si apprezza allora per la coincidenza di più film in uno: da una parte donne che tagliano teste a uomini, patti femminili di sangue e vendette a spirale, dall’altra l’indagine su un contesto che vede la violenza iscritta nell’ordine naturale. E, visto che non si può superare, va sostenuta a colpi di spada.
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