Mucca mon amour. L’allevatore che ha stregato la Francia, in un film

In sala dal 22 marzo (per NO.MAD Entertainment) “Petit Paysan”, folgorante opera prima del francese Hubert Charuel vincitore di tre Oscar francesi. La resistenza di un piccolo allevatore della campagna profonda contro il morbo della “mucca pazza”. Un film che è un sorprendente meticcio di generi, compreso il thriller. E che procura emozioni implacabili. Da vedere ….

Non è un film per vegani, non è nemmeno ecologicamente corretto, se volessimo ragionare sulle devastazioni planetarie che provoca la nostra inguaribile smania di hamburger e di succose bistecche. In compenso, ha ottenuto la benedizione di Slow Food e tre premi César, gli Oscar francesi, tra cui quelli per l’opera prima e per il miglior attore, uno sconvolgente Swann Arlaud.

Se è valida la regola aurea di ogni attore sensato, ovvero mai recitare con cani e bambini, che dire di trenta mucche da latte ? Eppure Petit Paysan, passato per le vetrine di Cannes, ha vinto la sfida alla grande. Procura emozioni implacabili ed è “un atto di vera resistenza”, come ha sacrosantamente annotato The Hollywood Reporter.

È un ibrido strano e affascinante, Petit Paysan, che esce da noi il 22 marzo, un sorprendente meticcio di generi che applica i codici del thriller alla ritualità laboriosa di un piccolo allevatore della campagna francese.

Il giovane Pierre ha sulle spalle la fattoria lattearia di famiglia, due mungiture al giorno, la vacca che sgrava, sette giorni su sette, tutto l’anno. Ma è come se quel lavoro fosse un prolungamento naturale del suo corpo e della sua testa. Dai notiziari tv e da YouTube piovono però notizie ferali sul morbo che sta devastando i bovini in Belgio: quando una mucca si ammala, l’intera mandria viene abbattuta d’ufficio. E gli indennizzi restano solo promesse.

Il nome del morbo, nel film, è di fantasia, ma il riferimento diretto è alla famigerata BSE, l’encefalopatia spongiforme bovina da noi ribattezzata “mucca pazza”, quella della crisi che negli anni ’90 ebbe il Regno Unito come epicentro.

E quando la prima, e poi la seconda delle sue vacche amatissime mostrano i segni del contagio, Pierre le uccide, le sotterra, le brucia, diventa fuorilegge e assassino dolente, mente a ispettori e poliziotti, inventa alibi con gli amici, spedisce via i genitori per una vacanza imprevista.

Assassino, con sotterfugi da assassino, perché bisogna sbarazzarsi dei cadaveri, e ci sono tutte le altre bestie da salvare, con i loro nomi, i loro occhi e la loro storia, animali orwellianamente “più uguali degli altri”.

Vi lascio scoprire da soli il finale, ma l’immagine di Pierre con l’ultimo vitello che ha aiutato a nascere cullato come un figlio sul divano di casa è di quelle che restano inchiodate al cuore. Non è la storia di Hubert Charuel, regista e sceneggiatore trentaquattrenne al primo lungometraggio, ma potrebbe esserlo.

Figlio e nipote di “paysans”, Charuel ha sentito davvero sua madre dire, tanti anni fa: “Se mi ammazzano le vacche, io mi suicido”. E ha patito l’antica disistima sociale per i “paysans”, solo recentemente riscattata dalla moda del “Bio”, l’ha trasferita in poche illuminanti battute del film. E racconta, con rigore documentaristico, un lavoro che conosce e sa fare.

Per la cronaca, mamma, papà e nonno del regista recitano in vari ruoli, il set è la vera fattoria dei suoi. Ma non è vita vissuta, è ossessione, proiezione, sogno e metafora, suspense, emozione senza ruffianerie melodrammatiche, insomma cinema-cinema.

Un uomo e trenta vacche. Adorate. E sfruttate, certo, diranno i vegani. Charuel, stuzzicato in proposito, sostiene che un paio, già condannate, le hanno macellate per festeggiare il fine-lavorazione. Ma forse è una provocazione.

fonte Huffington Post