Nella Sodoma del capitalismo. Pasolini, 45 anni dopo, è sempre il prossimo nostro, nel doc di Bertolucci

Per il quarantacinquesimo anniversario della morte di Pasolini, torna (su Chili TV, per VIGGO) il doc di Giuseppe Bertolucci “Pasolini prossimo nostro” (2006): un viaggio nell’ultimo, estremo film del “Poeta delle ceneri”, “Salò o le 120 giornate di Sodoma“, spietata allegoria del Potere (dal libro di de Sade) che rivive, nel doc, tra fotografie, filmati e conversazioni inedite di Pasolini: restituendone in pieno la radicalità del discorso politico e l’inesausta volontà di opporsi all’inferno neocapitalista…

A quarantacinque anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini (assassinato tra il 1 e il 2 novembre 1975), il suo ultimo film compiuto, Salò o le 120 giornate di Sodoma (tratto dal libro Le 120 giornate di Sodoma di de Sade) fa ancora paura: tornarci è (sempre) come tornare sul luogo di un supplizio, di una strage (ed effettivamente si consumano entrambi), di un inferno. L’inferno del «rapporto del Potere con chi gli è sottoposto», come spiega lo stesso Pasolini.

Ripercorre questo inferno il documentario del 2006 Pasolini prossimo nostro (ora disponibile, per VIGGO, su Chili TV). Uno degli ultimi film di Giuseppe Bertolucci (scomparso nel 2012), figlio di Attilio e fratello di Bernardo, già amici di Pasolini (il secondo ne fu anche aiuto regista, e la troupe di Novecento disputò una memorabile partita di calcio proprio con quella di Salò).

Non a caso, il doc è, tra i molti contributi d’indagine sull’opera di Pasolini, uno dei più lucidi e attenti a coglierne il senso profondo, senza facili luoghi comuni. Perché il peggior equivoco in cui si possa incappare (ri)leggendo Salò (e in generale tutto l’ultimo Pasolini), è ritenere che quella sessualità sadomasochista estrema, mortifera, crudele oltre i limiti del rappresentabile, stia lì a significare solo se stessa.

È invece lo stesso Pasolini, nella lunga intervista-conversazione col giornalista Gideon Bachmann mostrata nel film di Bertolucci, a metterci sulla giusta strada: in Salò le atrocità sessuali (traslate dall’epoca di de Sade alla repubblica nazifascista del ʾ44-ʾ45) mirano prima di tutto ad allegorizzare «ciò che il Potere fa del corpo umano», ovvero «la mercificazione del corpo umano, la riduzione del corpo umano a cosa, che è tipica del Potere, di qualsiasi potere».

È un discorso eminentemente politico, allora, quello di Salò (e non solo), con buona pace di chi vorrebbe restituire, di Pasolini, solo la (pur fondamentale) passione, svincolandola dall’ideologia. Ed è tanto più importante ricordarlo oggi, che quel discorso politico si conferma “prossimo” alla nostra società, degenerazione ulteriore di quell’impero consumista alienante che Pasolini denuncia negli ultimi interventi, e a cui rimanda la costellazione apocalittica di Salò.

Perché se ogni potere ha (da) sempre manipolato e violentato i corpi, quello della «falsa tolleranza» neocapitalista lo fa (insiste con Bachmann il regista-poeta) in modo mai così subdolo e totalizzante: ovvero «li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore», mutando l’eros da trasgressione vitale del sistema a obbligo funzionale al sistema stesso, essendo la nuova (apparente) libertà «concessa dall’alto, non conquistata dal basso».

Il doc di Bertolucci, allora, ripercorre (di pari passo con l’esegesi pasoliniana) le tappe di quell’inferno allegorico, attraverso le numerose fotografie scattate da Bachmann e da Deborah Imogen Beer (a cui il film è dedicato). Non un semplice espediente per rievocare Salò, ma una vera e propria reinterpretazione dell’opera: (ri)vista dall’inizio alla fine, nella successione dei gironi danteschi e del crescendo di violenze, sostituendo però alla continuità delle sequenze cinematografiche l’immobilità raggelata degli scatti in bianco e nero. Frammenti a cui si sovrappongono suoni, voci e musiche di quelle scene terribili, come echi da un’altra epoca che non ha smesso di parlare, anzi di gridare, alla nostra.

Così pure i filmati (in apertura e chiusura del doc) dove il Pasolini regista è impegnato a girare le torture del Girone del sangue, sono qualcosa di più dei semplici brani di un backstage. Giacché, oltre a sottolineare la pregnanza metatestuale del discorso pasoliniano (che a quest’altezza, come conferma l’incompiuto Petrolio, s’interroga su come l’artista sia a sua volta “carnefice”) introducono (insieme alle ultime foto) ciò che a Salò è mancato: una vera catarsi, mettendo a nudo la macchina cinematografica e la rappresentazione grottesca del film stesso. Catarsi che avrebbe forse suggerito uno dei finali pensati per Salò, la danza liberatoria della troupe nella sala tappezzata di bandiere rosse.

Conclusione che sarebbe risultata contraddittoria, nella cupezza soffocante del film: ma è sempre la contraddizione a fare la vitalità dell’opera di Pasolini. Il quale, come ci mostra ancora il dialogo con Bachmann, non crede (più) in possibili palingenesi storiche o metastoriche, cristiane o marxiste che siano («non credo ci sarà mai un tipo di società dove l’uomo sia libero»). Eppure, considera il saluto a pugno chiuso di Ezio, unico vero momento di ribellione delle vittime (ridotte a complici) di Salò, come il «punto culminante del film».

«Credo e non credo», insomma, come afferma con un sorriso quasi beffardo il regista all’intervistatore. Ed è nella forza di queste contraddizioni che si può allora (e ancora) scoprire, se non uno spiraglio di vera alternativa, la linfa di un’opposizione superstite, per quanto disperata, all’inferno che (ancora) ci domina. Per continuare essere, malgrado tutto, «una contestazione vivente».