Nell’Armenia di Stalin dove la speranza è l’ultima a morire. Un “Amerikatsi” da Oscar arriva in sala

In sala dal 16 gennaio (per Cine Club distribuzione internazionale)”Amerikatsi”  del regista americano di origini armene Michael Goorjian che qui si ricava anche la parte del protagonista. Una favola neorealista sulla speranza, ambientata nell’Armenia stalinista del dopo guerra. È qui che si ritrova Charlie, rimpatriato dall’America per conoscere il suo paese di origine, finendo invece in un carcere duro. Una “finestra sul cortile” sarà il suo unico spiraglio …

 

Difficile uccidere la speranza. Persino nelle peggiori condizioni, un carcere sovietico del primo dopoguerra. È la storia che racconta Amerikatsi, il film di Michael Goorjian, regista americano di origini armene, designato dall’Armenia per la corsa all’Oscar 2024 come Miglior Film Internazionale, rientrando nella short list finale.

Difficile uccidere la speranza. Eppure molti concorrono all’impresa, in questo film che ripercorre i vizi dello stalinismo, l’ossequio e l’ipocrisia, la violenza sistematica. E la repressione che nasconde la paura di quel che non si capisce, emblematico il marito di Sona, alto funzionario geloso e sprezzante, che cerca di liberarsi invano dell’amerikatsi.

L’Amerikatsi è Charlie, giovane uomo armeno che è sfuggito a quattro anni dal terribile sterminio attuato dai turchi, e che è volato in America chiuso in un baule. Charlie, che sa di non essere davvero americano, e che accetta la proposta di Stalin, nel 1948, di ritornare nella repubblica sovietica d’Armenia, pur non conoscendone neanche la lingua, che si è fidato della propaganda. Charlie, che mette in sicurezza il figlio di Sona, armena anche lei, durante un tumulto nella fila per il pane. Charlie, che cerca le sue radici con l’unico esile indizio di una ninnananna.

Impresa problematica. L’amicizia con Sona è pericolosa, l’ottusità del marito sarà il catalizzatore della sventura di Charlie, anche se il suo destino, la Siberia, non si compie. Ma Charlie resta in carcere, un carcere durissimo, per anni. Come molti prigionieri, perfettamente innocente ha firmato una confessione senza poterla leggere dopo un interrogatorio con un interprete che non lo capisce, e dunque ha dieci anni da scontare.

L’angustia degli ambienti, la difficoltà di sopravvivere, i volti che lo circondano hanno la verità del cinema neorealista, ma la storia va oltre, semina piccoli indizi, lascia intravvedere tracce di cambiamento. Michael Goorjian – che ha interpretato Charlie e che ha scritto, diretto montato il film, accompagnato dalle suggestive musiche di Andranik Berberyan – il sorriso non lo perde, come lo aveva ammonito la nonna lasciandolo nel baule della salvezza. Sembra sciocco sorridere in quella situazione drammatica, ma invece quel sorriso è la sua forza.

Disprezzato come armeno dai russi, come americano dagli armeni, Charlie in carcere trova un maestro, un anziano che gli ricorda, durante il duro lavoro di spaccapietre, nel tempo della miseria, che gli armeni sono stati i primi ad accogliere la religione cristiana, che sono stati gli inventori di vino e birra, che il più antico tappeto al mondo, conservato a san Pietroburgo, è di fattura armena. Più che orgoglio, è senso di sé.

Charlie trova anche una sua “finestra sul cortile”. Arrampicandosi in alto, nella sua cella, c’è un affaccio sul cielo, e sulle finestre dell’abitazione civile di uno dei guardiani. È qui che, guardando quelle finestre – come in un film muto -, scopre la domesticità della vita armena. Una vita nascosta, come nascosta è la passione della guardia che la abita, dipingere. Vietato dipingere, vietato ballare, vietato cantare musica popolare. Vietate persino le cravatte, segno di “cosmopolitismo”, qualsiasi cosa voglia dire nella Russia sovietica certo è un peccato grave.

E invece in quella casa armena si dipinge, si balla, si canta. Si vivono affetti e liti, pranzi solitari e cene conviviali. Appollaiato in alto, dal suo punto di osservazione, Charlie guarda, impara, prende parte, patisce e gioisce. Singolare la “cena speciale” con brindisi condivisa tra le due finestre, quando l’agente carcerario capisce che l’osservatore invisibile ha qualcosa in comune con lui, e lo sta aiutando.

La vita in prigione ha le sue durezze e le sue insensatezze. Ma è proprio quella guardia l’agente del cambiamento, da sorvegliante occhiuto si trasforma in grato amico, e poi di nuovo in ottuso repressore. La galera è sempre galera.

Ma, appunto, c’è speranza. Inutile piangere di vergogna e rammarico, meglio aiutare. Così ecco da quella finestra domestica, la canzone che Charlie aspettava, l’antica ninnananna. Non solo consolazione per il prigioniero, ma anche il mezzo per ritrovare le sue origini e la sua gente, il suo posto nel mondo.

La canzone è Gorani della regione del Taron, e gorani significa cicogna. Il grande uccello migratore, che va e che ritorna, che compare in ogni paesaggio, insieme al monte Ararat. Segni ambedue di speranza, immutabile anche se un po’ scapigliata. Così da riportare finalmente Charlie a casa. Alla sua Armenia.