Nureyev, icona pop di un’epoca. In un doc-anniversario
In sala il 29 e 30 ottobre (per Nexo Digital), “Nureyev, il genio ribelle che danzava per la libertà” dei fratelli Jacqui e David Morris, in occasione dei 25 anni dalla scomparsa dell’immenso protagonista della danza del Novecento. Un ritratto-mosaico di Nureyev che privilegia l’aspetto umano e politico. Con un neo, però: balletti senza il nome dell’autore o con imprecisioni nei titoli di coda …
Gli anniversari sono un’opportunità ghiotta quanto scontata per celebrare personaggi e creare eventi. Ma nel caso dei 25 anni dalla scomparsa di Rudolf Nureyev – immenso protagonista della danza del Novecento -, ricordato con il film dei fratelli Jacqui e David Morris, l’occasione è ben accolta. Giusta, soprattutto, per farlo conoscere alle generazioni più giovani che non l’hanno visto ballare sul palcoscenico e hanno mancato il sapore del suo magnetismo, la travolgente potenza delle sue esibizioni.
I molti filmati d’epoca – spesso inediti e dunque molto interessanti per tutti – costellano un ritratto-mosaico di Nureyev che privilegia l’aspetto umano e politico. Vi si ricostruisce la personalità del giovane ribelle che ruppe le gabbie dorate del Kirov, ai tempi bui della guerra fredda.
Le relazioni intense d’arte e di vita con Erik Bruhn e Margot Fonteyn, l’esilio – seppure glorioso – in Occidente (potè tornare in Russia a visitare l’amata madre solo grazie alla Perestroika di Gorbaciov). Fino alla consunzione per Aids, il male oscuro insorto negli anni Ottanta, terribile per un uomo che aveva vissuto per la danza e che sul palcoscenico voleva morire danzando.
Dal destino gli fu concesso solo di apparire, pallido e fragile, per un ultimo saluto al Palais Garnier, tra gli scroscianti applausi che avevano accolto il suo riallestimento di Bayadére di Petipa. Rimasto incompleto e, quasi premonitorio, fermo al terzo atto, quello del Regno delle Ombre. Che Rudolf raggiunse tre mesi dopo, il 6 gennaio 1993, nella sua casa di Parigi. Ovvero, nella stessa città che lo aveva accolto nel 1961 come astro nascente del Kirov e subito dopo da rifugiato, dopo il rocambolesco salto alla barriera doganale dell’aeroporto col quale chiese asilo politico.
Il film dei Morris – candidati peraltro al Bafta – ha una scioltezza e una vivacità insolite per un documentario. Il loro è un caleidoscopio magico che mescola interviste a Nureyev con le sue apparizioni sul palcoscenico, i ritratti del giovane tartaro colti dalla macchina fotografica di Richard Avedon (è sua la foto scelta per il manifesto del film) a quelli “rubati” negli studi di danza assieme a Bruhn. Mentre a tenere insieme il mosaico, in una sorta di doppio sogno, ci sono le coreografie di Russell Maliphant, dove in danza si raccontano i suoi anni in Russia.
Nureyev è stato tutto questo. Icona pop di un’epoca. Colui che con pensieri, parole e opere rivoluzionò il ruolo del danzatore nel balletto, portando a compimento l’esempio di Nijinskij e aprendo la strada a Baryshnikov. Manca qualche tassello, le frequentazioni dei set cinematografici che accrebbero la sua fama, o il rapporto con l’Italia – non solo le esibizioni con Carla Fracci (nemmeno citata), ma almeno i cenni al suo buen retiro a Li Galli, comprato da Massine.
Comprimere in poco meno di due ore un artista così sfaccettato, divoratore d’arte e di vita, collezionista raffinato, aspirante direttore d’orchestra, costringe a una parabola imperfetta. Con un neo vistoso, però, per un film incentrato su un danzatore: balletti senza il nome dell’autore o con imprecisioni nei titoli di coda.
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