Quando eravamo tutti cosmonauti (e comunisti). E i First Man erano due
I “First Man”, in realtà, furono due: Armstrong e Gagarin, tra la Luna vera e quella sognata, magari come la sognavamo noi, tra i Cinquanta e i Sessanta. Ecco, tra il personale e il collettivo, qualche sparso appunto sul perché e come, in quegli anni, eravamo tutti cosmonauti… Ora invece che sulla Luna si sbarca tra Pantelleria e la Sicilia (quando i porti sono aperti)… Un bellissimo ricordo di Renato Pallavicini …
* Quest’articolo (con qualche modifica e aggiornamento) è stato pubblicato su «l’Unità» del 16 aprile 2017. Armstrong e Gagarin non ci sono più. E nemmeno «l’Unità»… Ma noi sì …
Eravamo tutti cosmonauti. Sognavamo di galleggiare nello spazio, agganciati a un filo di acciaio, come facevano Tintin e il Capitano Haddock nell’avventura a fumetti del 1953-54 che aveva portato i personaggi creati da Hergé sul nostro satellite. Prima che sulla Luna ci arrivassimo davvero, il 20 luglio del 1969, alla faccia dei complottisti, di quelli «che è tutta una finzione dell’imperialismo yankee».
Tesi balorda lanciata in libri e pamphlet e spettacolarizzata in film come Capricorn One (1978) di Peter Hyams. In questo caso la cospirazione governativa, con la complicità della Nasa, orchestra una perfetta simulazione dello sbarco di tre astronauti su Marte, allestendo un set cinematografico e una finta sala di controllo a Cape Kennedy. Qualcuno, nella rincorsa successiva alle «bufale», ha perfino attribuito a Stanley Kubrick l’allestimento e la regia del finto sbarco lunare.
Qualche anno fa la tesi è ritornata, citata, anche in Interstellar (2014) di Christopher Nolan. In quel film, in un deprecabile futuro nel quale il nostro pianeta è regredito all’agricoltura, i libri di testo per le scuole, rigorosamente politically correct, avvalorano l’allunaggio come finzione propagandistica usata per sfinire, economicamente, l’Urss nella corsa alla conquista dello spazio. Ma per fortuna che il pilota Cooper-McConaughey non ci crede, se ne frega, salta dalla Luna a Saturno e oltre, nello spazio profondo che più profondo non si può, nel buco nero in cui tutto sparisce e tutto, forse, rinasce.
Eravamo tutti cosmonauti. Sognavamo il «piccolo passo per l’uomo e il gigantesco balzo per l’umanità»: tutti nei panni, anzi nella tuta, di Neil Armstrong. In fondo ci volle poco: bastò mettersi davanti alla tv, in una calda notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969, con telecronaca pasticciata e bisticciata tra Ruggero Orlando e Tito Stagno. A stare appesi ai gol delle radiocronache c’eravamo abituati: avevamo imparato, le domeniche pomeriggio, appiccicati con l’orecchio sulla radiolina a transistor ad ascoltare le partite di Tutto il calcio minuto per minuto. Ma quello infilato da Armstrong fu il gol spaziale del secolo. Scusa Ameri, qui Cape Canaveral: Usa batte Urss!
Eravamo tutti cosmonauti. Noi, comunque, facevamo il tifo per l’Urss, anche se capsule, navicelle e moduli lunari made in Usa ci piacevano di più. Erano più belli, dal design elegante e tecnologico, e assomigliavano, anche prima dell’uscita del film di Kubrick, ai vascelli di 2001 Odissea nello Spazio, disegnati da Douglas Trumbull.
Altro che quelle palle d’acciaio con gli oblò tondi delle varie Vostock sovietiche che sembravano le batisfere di Auguste e Jacques Piccard. Insomma: gli americani, eterni secondi nella corsa allo spazio, sulla Luna arrivarono primi, mentre i russi non ci sarebbero mai arrivati.
Però continuavamo a tifare per l’Urss e a litigare con un nostro amico antisovietico che ci rinfacciava sempre gli astronauti russi morti nei tentativi di assalto allo spazio. Morti nascoste, secondo le ricorrenti ma dubbie rivelazioni (con tanto di registrazioni sonore di bip-bip, disperati Sos e rantoli di umani in punto di morte) ad opera dei fratelli torinesi Achille e Giambattista Judica Cordiglia.
Del resto avevamo già tifato e gioito – Tintin a parte – per altre imprese cosmonautiche: per lo Sputnik (4 ottobre 1957), primo satellite artificiale in orbita; per la cagnetta Laika, primo animale in orbita, lanciato con lo Sputnik 2 (3 novembre 1957); per Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio (12 aprile 1961); per Valentina Tereškova, prima donna in orbita (16 giugno 1963); per Aleksej Leonov, primo uomo a fare una passeggiata nello spazio (18 marzo 1965)…
Eravamo tutti cosmonauti. La mattina del 21 luglio, dopo una notte insonne, scendemmo, prima delle 7, dal giornalaio sotto casa e tornammo su con un pacco di giornali: Il Messaggero, Il Tempo, l’Unità, Paese Sera, Il Corriere della Sera … ancora freschi d’inchiostro, neri di titoloni che macchiavano le dita e zeppi delle incerte foto in bianco e nero trasmesse da Apollo 11: quelle con il Lem, il modulo lunare che sembrava incartato nel «domopak»; con la bandiera americana che «sventolava» rigida come uno stoccafisso; con Neil Armstrong che scendeva dalla scaletta ed esitava a saltare dall’ultimo gradino sul suolo lunare, perché chissà che non fosse proprio della consistenza descritta da Arthur C. Clarke nel suo romanzo Polvere di Luna (1961), un mare di sabbia «liquida» nella quale si affondava come nell’acqua? E invece ci rassicurò la fotografia dell’orma dello scarpone di Neil impressa sulla poca sabbia lunare, immagine che occupava quasi per intero la bellissima prima pagina de Il Messaggero.
Eravamo tutti cosmonauti. E andavamo a Via dei Taurini, al numero 19, nel quartiere San Lorenzo a Roma, dove – in un edificio moderno e di cemento armato che svettava tra i villini e le case popolari novecentesche – c’erano la sede di Paese Sera e de l’Unità, dove lavorava mio padre.
Io e il mio amico Lino, ogni tanto, lo andavamo a trovare e mio padre ci faceva sempre fare un giro in tipografia, chiedendo a un linotipista di comporre i nostri nomi e cognomi su due righe di piombo in corpo 8, che poi usavamo come timbrini per marchiare i quaderni e i libri di scuola. Ci andammo anche qualche giorno dopo l’allunaggio dell’Apollo 11 (avevamo vent’anni, tra un’assemblea e l’altra del movimento studentesco), per cercare di raccattare qualche cliché di zinco, di quelli che servivano per riprodurre a stampa le foto e i disegni. Li fabbricavano all’ultimo piano di Via dei Taurini, dove c’era – appunto – la zincografia. Tra i cliché (le sottili lastrine di zinco sulle quali, allora, erano incise le fotografie per poter essere stampate) che erano stati utilizzati e che venivano buttati in vecchie cassette di legno sperammo di trovarne qualcuno che immortalava lo storico primo passo sulla Luna. Senza successo: erano andati a ruba.
Eravamo tutti cosmonauti. E comunisti, come i protagonisti del delizioso film Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli. Poi non lo siamo stati più. Colpa delle smentite della storia, dell’esaurirsi delle spinte propulsive e delle crisi economiche che hanno interrotto la corsa allo Spazio e fatto crescere le ragnatele sulle basi di Cape Canaveral/Kennedy e di Baikonur. Ora, pare che la corsa riparta e si prepara il viaggio su Marte (stando alle previsioni di allora, però, dovevamo già esserci arrivati) e Trump sogna la costituzione della Fanteria Spaziale. E invece che sulla Luna si sbarca tra Pantelleria e la Sicilia (quando i porti sono aperti). La Luna, come cantava Enzo Jannacci, è rimasta una lampadina «tacata in sul plafun… e mi sont chi, ‘nsul marciapee… e me fann mal i pee…».
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