Questa ballata è proprio un film…

Sette canzoni, sette storie, sette personaggi da raccontare. È “Seven Deadly Spins” della cantautrice canadese Lynne Hanson che stavolta si cimenta col murder ballad, per svelarci che tre colpi di pistola sparati a bruciapelo possono non essere solo splatter o banalità del Male. Possono anche essere poesia…

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Bisogna aver presente quell’incedere lento, quasi svogliato di una chitarra, di una voce, di un violino, che non ha però nulla di melodico. Le voci, i testi, gli arrangiamenti ti restituiscono un clima scuro. Gotico. Un presentimento di tragedie. Più o meno tuti sanno, insomma, cosa siano le murder ballad, quel genere – ma in realtà sono centinaia di generi – che dall’Inghilterra, dalla Scozia, dall’Irlanda secoli fa passò in America per raccontare crimini – e criminali – che erano diventate leggende. Quando ancora non esistevano i giornali.

Un genere che ha saputo rinnovarsi, adattarsi continuamente. E se ci fosse qualcuno che ancora non sa di cosa si parla, basta ricordare la sigla inziale di True Detective, la serie cult di David Cronenberg – ovviamente ci si riferisce alla prima serie -, che cominciava con quello strano, inquietante lamento a due voci degli Handsome Family, Farm From Any Road. L’essenza del murder ballad.
Storie, allora. Che però bisogna saper raccontare. Con grazia, efficacia, mordente e – perché no? – anche un pizzico di ironìa. Miscela non facile. Che bisogna saper dosare. Ecco perché Lynne Hanson è un gradino sopra gli altri.
Lei è una biondissima cantautrice canadese. Un nome nei circuiti del folk alternativo. Testi coltissimi, struttura musicale compatta, richiami al genere Americana, sempre lontanissima però da prodotti di facile ascolto.
Un incidente – non proprio piccolo – mesi fa l’ha costretta in ospedale. Problemi al ginocchio. Che fare?

Insieme all’amica Lynn Miles – che le ha prodotto i suoi album – decide di misurarsi con le murder ballad.
Un gioco. Tant’è che la distribuzione comincerà in Canada la sera di Halloween. Un gioco – come rivelerà poi la copertina dell’album, con un giradischi grondante di sangue – ma che poi è diventato un’altra cosa. Una cosa seria.
Perché Lynne Hanson – col suo Seven Deadly Spins – non si limita a raccontare in musica. Scava, scava dentro quei meandri bui dove non arriva il razionale. Prova a scavare nella parte oscura delle anime.

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Sette racconti, insomma. Sette personaggi tratteggiati con poche battute e pure con molta cura. Sette racconti – le cui colonne sonore spaziano dal blues al blues-rock – che magari aspettano solo di diventare un film.
Che in ogni modo sarà originale. Perché – come spiega benissimo Gabriele Benzing in un saggio dedicato al genere – le murder ballad (anche se non sempre) spesso sono raccontate “dall’esterno”, in terza persona. Con una voce narrante.

Qui, invece, Lynne Hanson fa parlare i protagonisti. E c’è Graddiver, che fa intuire la storia di uno strano becchino che seppellisce le vittime. Forse dei suoi omicidi, ma non è sicuro. E non conta. Perché la canzone è la storia del suo cinismo, della sua regolarità mostruosa. “Il mio nome è Graddiver e non posso cambiare le regole”.
E poi c’è Black Widow. Una donna, elegante, non più giovanissima, sta nascondendo il cadavere del marito. Del suo quinto marito. Che ha fatto la fine di tutti gli uomini che l’hanno delusa o tradita. Lo seppellisce vicino ad un fiume, senza neanche l’ombra di un pentimento. E se proprio c’è un desiderio è quello di non essere presa, di trovare un altro uomo. Un vero uomo, stavolta, che non “cada in ginocchio a mendicare”.
E c’è My Mamma Said. Un altro omicida. In attesa di essere condannato a morte (le ultime ore dei condannati sono un altro dei capisaldi del genere musicale). Che svela i dettagli della sua vita parola dopo parola, accordo dopo accordo. “A 16 anni, il pastore mi disse che ero una maledizione / nessuna speranza di redenzione”.
Si potrebbe continuare a lungo. Fino al “capitolo” che un po’ tutti considerano il più riuscito: Cecil Hotel. Il nome potrebbe suggerire una facile immagine noir, visto che l’albergo esiste davvero a Los Angeles, ed è stato teatro di strani omicidi, che hanno alimentato altrettante strane spiegazioni, che vanno dai marziani ai fantasmi.

Nulla di più lontano, però, da questo brano. Questo è un motel isolato, il più isolato possibile. Perché qui in una stanza c’è un ex contadino, un ex proprietario di una fattoria. La siccità, la crisi, la concorrenza delle grandi catene lo avevano ridotto alla fame. E un giorno, al cancello della fattoria, si sono presentati due esattori della banca per confiscargli la tenuta. E lui li ha uccisi. Ora è in fuga. Dorme con la Bibbia a destra e un fucile a canne mozze a sinistra. Sa che non vedrà mai più la moglie e la figlia, sa che non durerà a lungo. Ma ha un solo desiderio: di non essere sorpreso dalla polizia nel sonno, di non essere ucciso di notte. Perché magari pensa che di giorno, Dio sia più disponibile a perdonare.

Eccoli, dunque, questi racconti, queste sette canzoni. Figlie dirette delle loro antenate inglesi. Non vogliono spiegare nulla. Vogliono solo raccontare. E magari svelarci che tre colpi di pistola sparati a bruciapelo possono non essere solo splatter o banalità del Male. Possono anche essere poesia.