Morti di fame. Se il genocidio ucraino è un “raccolto amaro”, tra storia e stereotipi
In sala dal 18 luglio (con PFA Films), “Raccolto amaro” (2017) del canadese di origini ucraine, George Mendeluk. Attraverso la parabola del giovane artista Yuri viene inscenato l’Holodomor, lo sterminio per fame voluto da Stalin nel 1932-33. Tra sovietici spietati, retorica e semplificazioni il racconto sceglie una ricostruzione mai problematica della realtà, fatta di sterotipi e ritratti da cartolina. Sullo stesso tema anche “Mr. Jones” di Agnieszka Holland, passato in concorso all’ultima Berlinale …
In concorso, all’ultima Berlinale, c’era Mr. Jones di Agnieszka Holland. Un film che rievoca la parabola di Gareth Jones, giornalista inglese, primo a denunciare pubblicamente la carestia in Ucraina del 1932-33: già intervistatore di Hitler, Jones era entrato in Unione sovietica proprio per intervistare Stalin, salvo poi rilevare – coi suoi occhi – la tragica situazione ucraina che viene qui racchiusa perfino in episodi di cannibalismo.
Jones fu divulgatore dell’Holodomor (letteralmente: morte per fame), ovvero la carestia provocata dal regime staliniano per piegare la resistenza con milioni di morti, ammessi dalla Russia solo nel 1991. Dopo la dichiarazione dell’Onu nel 2003, che definisce l’Holodomor come tragedia nazionale ucraina, il riconoscimento del genocidio è tuttora oggetto di discussione.
Quello che Holland mostrava per interposto giornalista, Raccolto amaro lo inscena in modo frontale. Il film di George Mendeluk (che fatalità usa nella sua traduzione italiana proprio un titolo della Holland dell’85), regista canadese di origini ucraine, si apre negli anni Trenta proprio nelle campagne del Paese, introdotte dalla voce fuori campo del giovane artista Yuri: il protagonista incarnato da Max Irons, figlio di Jeremy Irons, fin dall’infanzia è innamorato di Natalka, sua promessa sposa.
L’idillio viene spezzato dall’invasione dell’Armata rossa: morto Lenin il sogno comunista gradualmente svanisce, Yuri viene sradicato e si reca a Kiev (prima per fare l’artista, poi in fabbrica), la purga staliniana si abbatte sullo Stato satellite. La requisizione del raccolto mette in ginocchio il territorio che, senza grano, si apre così al biennio di carestia. Come scriveva proprio Gareth Jones, le campagne innevate diventano un girone infernale di disperati in cerca di cibo, adulti stremati e bambini che vagano senza genitori. Gli ucraini organizzano una resistenza impari.
Fin qui la Storia, con le sue interpretazioni, ombre e tragedie. Poi c’è Raccolto amaro che no, non la ricostruisce credibilmente: dall’inizio il racconto sconta una messinscena per stereotipi, presenta figure nette e semplificate, a partire dai sovietici dipinti come spietati carnefici (tutti) – mai un dubbio, un problema – e i contadini ucraini come eroici resistenti allo sterminio.
Una visione legittima, naturalmente, ma che per l’assenza di qualsiasi chiaroscuro toglie potenza e plausibilità al tema trattato limitandosi alla mera divulgazione. Quando l’intreccio lascia il particolare per l’universale poi troviamo uno Stalin da cartolina, villain marveliano che sbatte il pugno sul tavolo e urla: “Attuerò il piano di Lenin senza pietà”. Di contro, tra i tanti, c’è un sacerdote ucraino che viene giustiziato e appena prima di morire afferma al sicario ateo: “L’inferno è l’incapacità di amare”.
Il percorso di Yuri si sviluppa quindi in ridondante voce off, tra dialoghi che sfidano la sospensione d’incredulità e una regia che si direbbe televisiva (ma la serialità, oggi, ha smentito questa definizione): non si soffre per la storia d’amore tra Yuri e Natalka, continuamente interrotta dalla Storia come novelli Romeo e Giulietta sotto regime, né viene problematizzato il nodo della dittatura sia politica che culturale, col passaggio for dummies sullo stalinismo che reprime l’arte “degenerata” (si veda allora, a proposito, l’ultimo Wajda sul pittore Strzemiński: in italiano Il ritratto negato).
Per la verità Raccolto amaro migliora nella seconda parte quando diviene film d’azione sulla resistenza: Yuri vi partecipa come elemento più attivo e simboleggia così ogni resistente, destinato all’inevitabile sconfitta, e infine “torna bambino” nell’ultima sequenza che si chiude con la classica didascalia.
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