“Ready player one”, un gioco da ragazzi. Anzi da ragazzini
“Ready player one” il bestseller di Ernest Cline (Dea Planeta edizioni) e l’omonimo film di Steven Spielberg (in sala per Warner Bros). Un viaggio attraverso la realtà virtuale, immerso completamente nell’immaginario anni Ottanta dei primi videogiochi. Eppure, oltre ai godibili riferimenti pop, non c’è molto. Soprattutto per chi quegli anni li ha vissuti. Buono, invece, per i millennials …
Ready player one. Se non sei un millenial, sarà sufficiente questo per accendere un caleidoscopio di suoni, colori e immagini rigorosamente bidimensionali e pixellati.
Era la scritta d’apertura campeggiante sullo schermo di ogni videogioco del pianeta, in quel luogo dell’immaginazione che è il periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta. E che aveva il baricentro negli scintillanti anni Ottanta.
Epoca pionieristica, rivista a posteriori, e foriera di rivoluzioni copernicane nei costumi – si pensi al web e al cellulare – con tutto quel centrifugato di cultura pop che va dal Cubo di Rubik, al videoclip; da Ritorno al futuro, agli Slasher movies; dal Commodore 64 fino ai manga nipponici (per la verità, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un anacronismo, per lo più erano degli anni Settanta. Specie quelli della prima invasione televisiva).
A questa Babele di suggestioni ha attinto a piene mani Ernest Cline, classe ’72, statunitense e sorta di nerd istituzionale che ha in Ritorno al Futuro, Buckaroo Banzai e nei film giovanilisti di John Hughes, i suoi punti cardinali cinematografici. Tanto dall’averli omaggiati a più riprese nel suo romanzo: Ready player one, appunto (nelle librerie italiane con Dea Planeta) da cui Steven Spielberg ha tratto il suo ultimo film.
La storia è riassumibile in una quest. Soluzione che da sola spiega parecchio del tipo di tensione motivazionale che sottende il senso stesso dell’opera, la quest, infatti, è la base del gioco di ruolo, da Dungeons & Dragons in avanti. La storia ha un protagonista, carino e sprovveduto, alter ego dell’autore, che ha le stimmate dell’eroe per caso cui viene in soccorso una tipa carina che sa il fatto suo.
Il volume per quanto ci si sforzi di volergli bene, se non altro per la cura con cui propone un elenco smisurato di riferimenti pop, resta un libretto dalla trama poco appassionante, scarsamente originale – s’inserisce il quel filone fantascientifico per ragazzi che ha in Maze runner e The Hungher game i capisaldi – e palesemente furbetta, tant’è che invariabilmente fa capolino l’idea del grande Fratello in chiave reality show.
Ma soprattutto, lenta. Una lentezza su cui neppure Spielberg a distanza di otto anni dalla prima pubblicazione del libro (2010) sembrerebbe abbia avuto la meglio. La pellicola dell’ex ragazzo prodigio – cosceneggiata dallo stesso Ernest Cline – vive di lampi. Alterna momenti di apprezzabile cinema d’intrattenimento ad esasperanti cali di ritmo.
Nel rispettare il testo, ne rispetta anche le lungaggini prive di senso e sostanza. Ne esce fuori un film esasperatamente prolisso e fragorosamente confuso. Ma soprattutto, testo e lungometraggio non chiariscono un paradosso di fondo, che è incentrato su questo punto: via, via che la storia prosegue affiora una verità, l’opera che è intrisa fino all’ossessione di cultura pop 80 – con un extra di divagazioni che vanno dalla Bat Mobile del telefilm con Adam West, a Godzilla e King Kong – non trasmette nulla a chi in quegli anni c’era.
Ai coetanei del volenteroso Cline, film e libro arrivano in didascalie. Pertanto nel suo insieme “ipertestuale”, Ready Player One si definisce per essere suo malgrado un romanzo – film generazionale. Non nel senso che parla di una generazione – gli Ottanta – ma a una generazione, i millenials.
Eh sia, il film, ma potrebbe essere un videogioco o un cartone animato, si apre con una suggestiva panoramica sulla baraccopoli dove risiede il protagonista: un groviglio d’impalcature su cui poggiano come nidi di lamiera, roulottes e containers e da lì in poi alterna momenti di assoluta inutilità a sprazzi di scintillante animazione che ha uno dei clou con l’entrata in scena di Gundam. Certificando che ci voleva Spielberg per vedere un manga robotico in un film.
Tra le citazioni “dotte”, sagnaliamo il gustoso ricorso alla formula magica del Mago Merlino nell’ Excalibur di John Boorman: “Anaal Nathrakh …”, indispensabile per risolvere gli enigmi disseminati per OASIS dal suo creatore.
Libro e film hanno comunque il sapore agrodolce dell’anacronismo. Aggrappati come sono alla realtà virtuale, qualcosa che era già datata nel 1999, quando uscì Matrix e che oggi è preistoria sul piano narrativo e su quello reale, pensando che i suoi lividi bagliori si perdono nel lontano 1980, quando William Gibson ne prefigurò l’affermarsi nei suoi visionari romanzi intrisi di cyberpunk. E come in un paradosso temporale, si ritorna fatalmente agli anni Ottanta.
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