(Ri)scoperte cine-letterarie su Netflix. Quell’accompagnatrice dall’animo russo di Nina Berberova
Per gli appassionati del cinema di Claude Miller, ma anche della scrittrice russa emigrata in Francia Nina Berberoba ecco “L’accompagntrice”, ultimo film del regista francese del 1992. Racconto nostalgico e commovente della vita di una giovane pianista senza talento che vive la luce riflessa della grande artista che accompagna, appunto, nelle sue tournée. Dalla Russia della rivoluzione bolscevica alla Francia del 1942. Su Netflix …
“Verdure razionate, niente carne, tasso di mortalità in aumento del 69%, 17 attentati della Resistenza in 15 giorni. Fame” recitano così i cartelli affissi per Parigi nell’inverno del 1942-43, nell’anno più nero dell’occupazione nazista, mentre un treno corre sui binari per chissà dove e con quali viaggiatori … Si immagina ebrei e non verso i campi di deportazione. Così il cineasta francese Claude Miller (1942 -2012) introduce il suo film L’accompagnatrice del 1992.
Allievo della Nouvelle Vague, dapprima collaboratore di Jean-Luc Godard e di François Truffault, esordì in proprio con La meilleure façon de marcher del 1976 (Premio César 1977) che lo rivelò al grande pubblico; dopo Mia dolce assassina (1983), L’effrontée – Sarà perché ti amo? nel 1985 gli valse il Premio Louis-Delluc e per Classe de neige del 1998 gli fu assegnato a Cannes il Premio della Giuria.
Traspone qui in un libero adattamento L’accompagnatrice (tradotto da Feltrinelli nel 1987), racconto nostalgico e commovente della scrittrice russa emigrata in Francia Nina Berberoba (1901 – 1993), originariamente ambientato nella San Pietroburgo della rivoluzione bolscevica, nella Francia del 1942 – 43, e riproposto ora da Netflix.
Sophie Vasseur (Romane Bohringer, brillante interprete di Notti selvagge di Cyril Collard, 1992), figlia di indigente ragazza-madre, giovane e scialba pianista, ha vent’anni e sogna la luce che le viene dall’incontro casuale con Irène Brice (Elena Safonova) che, con la sua bellezza, la sua sana crudeltà, i suoi invidiabili talenti, canta, vive e viene amata. Qualsiasi cosa accada, dovunque ci si trovi, la voce divina di Irène seduce gli occupanti, i collaborazionisti, gli inglesi: da sola rappresenta un trattato di pace e copre il fracasso dei bombardamenti.
Sophie ne diviene non solo l’accompagnatrice, ma anche l’ombra, il riflesso, la schiava prediletta. Irène ha successo e un marito, Charles, innamorato e collaborazionista (interpretato straordinariamente da Richard Bohringer), uomo d’affari senza scrupoli, che si barcamena fra occupanti e compatrioti riuscendo a realizzare cospicui introiti.
Ma Irène ha anche un amante gaullista, Jacques, Sophie invece non ha nulla, se non Irène, con il fascino che esercita su di essa, il desiderio di sfuggirle e di appartenerle al tempo stesso. Seguiranno viaggi, esilii continui successi e nuovi amori per Irène, mentre Sophie, estranea alla lietezza come lo era stata alla disgrazia, resterà più sola e frustrata che mai, senza avere appreso nulla, e viva solo a metà.
A questo racconto – conciso, violento, sottile – e scritto in uno stile fluido e netto nel 1934, si deve nel 1985 la scoperta, grazie a Hubert Nyssen titolare della piccola casa editrice Actes Sud, della figlia di famiglia agiata di San Pietroburgo Nina Berberova in Francia dove, giunta nel 1925 dopo alcuni anni trascorsi a Berlino, visse per più di vent’anni prima di trasferirsi negli Stati Uniti negli anni ’50.
Un centinaio di pagine di rara finezza psicologica, voce poetante della vita malinconica degli immigrati russi e che si distinguono per il nitore e la duttilità della prosa, sullo sfondo della totale mancanza di illusioni di chi ha conosciuto fino in fondo le asprezze della vita, con una sensibilità inadatta a integrarsi nella dura realtà di una nuova vita lontana dalla patria, perduta nel sogno di un passato incantato di un Paese spesso più immaginato che reale.
Lo dimostra l’affare Kravčenko, autore di Ho scelto la libertà (1947) e addetto della missione commerciale sovietica negli Stati Uniti dove ha poi chiesto asilo politico e che raccontò per la prima volta al pubblico occidentale la condizione dei campi di concentramento, le purghe staliniane e l’assenza di libertà in URSS. Si trattava, per i contenuti e la novità, di un documento senza precedenti e si trasformò in un successo. La nota rivista d’area comunista Les lettres françaises, denigrò duramente Vicktor Kravčenko, il quale intentò una causa per diffamazione contro il periodico; il processo ebbe inizio a Parigi nel gennaio 1949 e Nina Berberova seguì tutte le udienze per conto del settimanale russo che appariva in Francia Russkaja Mysl di cui era corrispondente.
Ritroviamo il tema dello spaesamento dei suoi compatrioti in terra straniera in Le feste di Billancourt (Adelphi 1994): nel sobborgo parigino sede delle officine Renault, erano confluiti in massa emigrati della Russia Sovietica, reclutati dalla fabbrica francese; e Billancourt divenne una specie di enclave russa, luogo di tutte le desolazioni e di tutte le nostalgie, campo di una perenne battaglia fra incongrue euforie e tenace squallore.
Nina Berberova coglie la vena di bizzarria, talvolta di tenera follia in molti di questi mai rassegnati sradicati che continuano a sognare. Ancora la Parigi dei russi bianchi, teatro della disperazione e dello smarrimento, viene narrata in Il lacchè e la puttana (Adelphi 1991), incentrato sul «lacchè», ex ufficiale della cavalleria zarista, finito come cameriere a servire caviale – proprio quello! – in un ristorante di lusso.
La fama arrivò tardiva: quando l’autrice era più che ottantenne e viveva da decenni negli Stati Uniti, dove fu “scoperta” dopo la morte. A L’accompagnatrice si deve il suo successo in Europa. Immaginava, lasciando l’Unione Sovietica all’età di vent’anni, che sarebbe stata un’immigrata fino alla morte? Settanta anni di esilio… a Capri da Maxime Gorki, a Parigi e a Billancourt, negli Stati Uniti, da Yale a Princeton dove insegnò negli ultimi anni. Più vite, come scrisse nell’autobiografia Il corsivo è mio (1969, tradotto da Adelphi nel 1989), una formidabile traversata del secolo con i protagonisti, da lei incontrati, celebri o meno, e che ci racconta.
Appariva spesso sarcastica, senza mai impietosirsi, perché si imponeva di non lasciarsi prendere dall’”anima russa”, la “rousskaia doucha”, quella tenerezza molle, calda e insondabile: non si sentiva né tenera, né tantomeno tormentata.
Nel racconto originale Sophie è Sonecka, figlia di un’insegnante di pianoforte e concepita in un momento d’amore, per non dire di errore, da un’insegnante e uno studente. Per via dei vicini sempre pronti a dare giudizi e a spiare, Katerina Vasilévna Antonovskaja, madre di Sonecka, è costretta a lasciare il Conservatorio nel pieno della tempesta della rivoluzione bolscevica: nessuno intende più affidarle i propri figli; cosicché, nel giro di qualche mese, mamma e figlia si ritrovano sul lastrico e con un unico allievo, strano e geniale al tempo stesso: Mitenka, grazie al quale Sonecka trova un lavoro che le cambierà la vita; aveva nel frattempo imparato a suonare il pianoforte e avrebbe fatto l’accompagnatrice di una famosa cantante: la bella e celebre Marija Nicolaevna.
Con incomparabile maestria Nina Berberova mette in luce i tortuosi meccanismi d’invidia e competizione che spesso caratterizza il mondo delle donne, e con estrema lucidità descrive l’ambivalenza che talvolta contraddistingue i sentimenti umani. Nel racconto originale come nella trasposizione cinematografica lo scenario è lo stesso: un appartamento di un quartiere agiato dove la quotidianità non cambia: ricchezza, ostriche, personale domestico in livrea.
Aveva scritto più di venti racconti, non per “riporli nel cassetto”, come facevano i russi in Francia, ma pubblicati nei periodici dei compatrioti immigrati: all’epoca del Fronte popolare negli anni ’30, però, un “russo bianco” non veniva visto di buon occhio e, nei cabarets allora di moda, li si considerava “zingari”, poiché si guadagnavano da vivere cantando componimenti nella loro lingua; e i francesi, all’epoca, poco si interessavano alla realtà di questi immigrati, principi squattrinati, cosacchi ornati di medaglie, intellettuali che, pur parlando francese, vivevano fra loro in condizioni modeste.
Nel film di Miller, l’ultimo da lui realizzato prima dell’improvvisa scomparsa, pur se d’incomparabile maestria, Romane Bohringer, che interpreta Sophie/Sonecka, appare costretta all’assenza, all’immobilità, al comportamento sottomesso di un animaletto spaurito: commovente e intrigante risulta quindi L’accompagnatrice, di cui il regista sembra avere amato in particolare lo sventurato Charles, impersonato da Richard Bohringer, il personaggio più fragile e sconfitto nella sua forza malvagia, nella sua disperazione che in fin dé conti lo assolve. Dobbiamo quindi a Miller un inno all’amore?
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