Ritorno a “Shashamane”, terra promessa dei rasta
È il doc di Giulia Amati, nota per “This is my land” su Hebron, che stavolta si sposta in Etiopia divenuta terra promessa per i “rasta” e per i discendenti della diaspora africana dei secoli scorsi. Ma non per tutti il sogno è diventato realtà…
Shashamane è un interessante documentario di Giulia Amati, nota al pubblico degli appassionati soprattutto per un film denuncia del 2010, This is my land, ambientato nella città palestinese di Hebron occupata dagli israeliani. La sua nuova opera, presentata allo scorso al Biografilm festival di Bologna e recentemente a Roma (sempre nell’ambito di Biografilm festival), sposta il tiro sulla località dell’Etiopia divenuta terra promessa per i “rasta” e per i discendenti della diaspora africana dei secoli scorsi.
Nel 1948 l’imperatore Hailé Selassié decise di regalare una zona del paese, lontana 250 chilometri da Addis Abeba e scarsamente abitata, Shashamane appunto, agli africani resi schiavi e sparsi per il mondo che avessero desiderato tornare nella terra di origine assieme alle loro famiglie e costruire qui un nuovo futuro.
Alcuni di loro sono in effetti tornati, dal Giappone, dall’America, dall’Europa e soprattutto dalla Giamaica, dove Bob Marley si era fatto interprete – anche attraverso le sue canzoni – del sogno, delle speranze e del desiderio di riscatto legati a questo ritorno alle origini. Il film di Giulia Amati racconta la loro storia, “attraverso le voci – così recita la locandina – di chi ce l’ha fatta e di chi ci ha ripensato, di chi è rimasto deluso e di chi insegue ancora un’utopia”.
In effetti il pregio del film sta proprio nella testimonianza, sufficientemente libera da pregiudizi e condizionamenti ideologici ma non priva di una certa indulgenza, di ciò che avviene quando si insegue un sogno e poi la realtà si dimostra in tutta la sua cruda durezza.
Per molti infatti quella terra promessa non è stata affatto accogliente. Ancora legati al mito di Hailé Selassié, le cui immagini tappezzano i muri delle povere abitazioni, hanno trovato un paese profondamente diverso da quello che si aspettavano, duro, inospitale.
E sono così finiti nella condizione di molti emigrati spinti dal bisogno in cerca di una vita migliore, i quali hanno perso le loro radici e non si sentono a casa né nella terra d’origine né nel paese in cui si sono fermati. Con l’aggravante in questo caso di non avere né valide motivazioni né sufficienti risorse per tornare nei luoghi da cui sono partiti. Forse sono soprattutto le donne a dare il senso di questa perdita e di questa disillusione, restando un po’ nello sfondo e come reticenti a manifestare i loro sentimenti e i loro pensieri.
Una parabola esistenziale non priva di spunti di riflessione quella di Shashamane, specie se si confronta la sorte di questa utopia dai risvolti un po’ amari con altri ritorni alla terra promessa. Primo fra tutti il ritorno degli ebrei in Palestina, che certo si basava su un’organizzazione ben più capillare e su fondamenta più solide anche dal punto di vista ideologico. Non che Israele si possa additare come terra di fratellanza, tutt’altro. Ma quanto sia volatile il ricordo della vita passata, quanto sia facile perdere le proprie radici e, soprattutto, quanto sia difficile la convivenza: tutto questo ci dice con belle immagini e dure parole il documentario di Giulia Amati.
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