Quando i precari erano atipici e c’era la sinistra

È “Vite ballerine/Prima e dopo il jobs act” il libro di Bruno Ugolini che raccoglie una selezione meditata della rubrica, “AtipiciAChi“, che ha tenuto su l’Unità per 13 anni. A rileggerla oggi la prima vera inchiesta su quel mondo semi-sommerso dei co-co-cò, delle partite Iva, dei contratti a tempo determinato, dei lavoratori in nero. Insomma, il mondo dei senza diritti che oggi sembra sancito per legge …

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C’è il tema. Che irruppe drammaticamente nelle stanze della sinistra (allora, pochi anni fa, c’era ancora). C’è il metodo. Innovativo. Ci sono le riflessioni. Di chi ha letto il mondo sempre dall’angolo di visuale dei “salariati”.  Che nel secolo scorso si chiamavano “gli ultimi” ma che  – strada facendo, non si sa come – sono diventati i “privilegiati”. Ma poi – purtroppo – c’è anche questo paese. Che non lascia e non lascerà chances ai veri protagonisti del libro. Anche se continuerà ad offrire tribune ai protagonisti marginali del libro, sempre sovrarappresentati.

A questo punto, però, forse è bene spiegare di che si tratta. Si parla del libro di Bruno Ugolini, Vite ballerine / Prima e dopo il jobs act (edizioni Ediesse, 13 euro).  Che cos’è? È una selezione – meditata, studiata, pensata – della rubrica settimanale che Bruno Ugolini tenne per tredici anni sull’Unità (quando era ancora l’Unità), intitolata AtipiciAChi.

Dal 2001. Selezione corredata a margine da interviste e interventi.
Bruno Ugolini non ha bisogno di presentazioni. È una storica firma de l’Unità, intellettuale, saggista, editorialista. Che si è formato professionalmente “sul campo”, negli anni duri della rivolta operaia, alla fine dei Sessanta. E forse proprio quella formazione, così diversa da quella di tanti suoi colleghi, gli ha permesso di essere perennemente curioso di tutto ciò che si muove nel mondo del lavoro (e se è consentita una nota personale, Ugolini è stato anche un punto di riferimento professionale, politico, umano per chi scrive queste righe). Una curiosità che gli ha consentito di entrare anima e corpo, all’inizio del millennio, dentro il tema della precarietà.

Dentro il mondo dei senza diritti.

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Un’ultima premessa, per capire cosa abbia rappresentato quella rubrica in un giornale, e quindi nel partito che rappresentava, ancora inchiodato al laburismo di fine secolo. Pronto – giustamente – a spendere fino all’ultima goccia di inchiostro a difesa delle pensioni con Cofferati ma disattento a tutto ciò che riguardava la marginalità nel lavoro.

E invece proprio in quell’Unità, Ugolini inaugurò la sua rubrica. Si chiamava, lo si è detto, AtipiciAChi e aveva preso il nome da una mailing list, messa in piedi dal NIdiL-Cgil, il primo tentativo della confederazione di dare rappresentanza ai co-co-cò, alle partite Iva, ai contratti a tempo determinato, ai lavoratori in nero.

Attenzione, però: la rubrica di Ugolini non aveva nulla a che fare con l’ultimo giornalismo. Quello di chi oggi si informa su Twitter e poi si limita a riassumere i post letti su Face Book. Anche se deve raccontare i profili delle vittime di una strage.

No, AtipiciAChi seguiva un metodo diverso. Ugolini prendeva spunti  dalla rete, ma poi li filtrava, ci ragionava sopra, li rimandava alla rete. Aspettava e proponeva nuove sollecitazioni. In uno scambio continuo. Un metodo straordinariamente innovativo. Per quegli anni e per l’oggi.

Ma sopra tutto questo, c’è il contenuto di quella rubrica. Che a rileggerla oggi, si può definire come la prima vera inchiesta – e per di più decennale – di quel mondo semi-sommerso. Ci sono i racconti, le storie, i drammi – a volte intervallati da piccole aspirazioni – di Federico, Sandro, Sofia, Maristella, Sissi e via per centinaia di nomi.

Ognuno rivelatore di una porzione di questo universo. Che si conosce a grandi linee, che – nonostante il balletto di cifre rilanciate dal governo – abbiamo imparato a conoscere nella crudezza dei numeri ma quasi mai nei risvolti umani. Esistenziali. Con la precarietà che non entra solo nella condizione lavorativa ma “straripa” in ogni aspetto della propria condizione.

Precarietà capace di condizionare anche l’aspetto umano, i rapporti personali.
Le rubriche sono divise in capitoli, che seguono un ordine cronologico e un ordine tematico (i primi vagiti di organizzazione fino ai jobs act, le donne, il precariato cognitivo, ecc; e c’è addirittura un capitolo sui film che entrano in rapporto col tema della precarietà). E svelano che magari uno su diecimila tifa flessibilità perché meglio si adatta alle proprie scelte di vita. Ma appunto: uno su diecimila. Gli altri quella flessibilità e quella precarietà la subiscono.

Con un dato che sembra risaltare. Forse più drammatico di altri: la scelta di difendersi – quando e se si può – da soli. La scelta autoimposta di accontentarsi. Come “Hobbes” – in una delle prime puntate della rubrica – che dopo una laurea, 5 anni in nero, 3 come Co.Co.Co e 3 con un contratto a tempo determinato, alla fine dice: “Meglio di niente”. La fine di un progetto collettivo. Di una speranza collettiva.

Le cause di tutto questo? Susanna Camusso nella sua introduzione mette l’accento sui “grandi cambiamenti sociali” di questi anni. Una sorta di Grande Meteorite caduta sul mondo, quasi all’improvviso. La leader della Cgil comunque ammette i limiti dell’azione sindacale, nell’analisi e nel contrasto di questa tendenza. A cui si è provato a rispondere con la nascita delle “Nuove Identità di Lavoro”, appunto il NIdiL-Cgil (il cui ruolo, va detto, è sopravvalutato un po’ in tutto il libro: sfido chiunque sia in contatto con un giovane a farsi dire cosa sia il NIdiL) e a cui si risponderà con la raccolta di firme per un nuovo statuto dei diritti. Sì, una raccolta di firme.

Si potrebbe continuare raccontando che nel libro c’è l’intervento del segretario della Cisl, Sergio Petteni che non ha timore di scrivere che in fondo va tutto bene e che i jobs act vanno nella direzione giusta. E si potrebbe proseguire citando l’intervento di Cesare Damiano, ex ministro, e la sua logica di emendamento. In un paese nel quale – quest’anno – i lavoratori pagati con un vaucher sono stati 1.392.906 ed erano 24 mila nel 2008. Cesare Damiano, nel libro, promette di battersi per correggere qualcosina qui e là.

Ma – occorre insistere – non c’è solo questo. Perché leggendo tutte le storie contenute nelle puntate della rubrica, si coglie un segno sopra agli altri. Giovanni, Imma, Adele, Sandro e così via non chiedono lavoro. Può apparire così ad una lettura superficiale: ma non chiedono lavoro. Chiedono reddito. Cosa diversa. Reddito, che consenta loro di vivere, di progettare, di sperimentare, di formarsi se vogliono.

Chiedono reddito. Non un’occupazione. Tema che invece è assente nelle risposte offerte dagli interlocutori scelti da Ugolini. Sì, se si legge bene il libro, quell’esercito di ragazzi e ragazze (molti non più giovanissimi) chiede reddito di cittadinanza. Certo, non quello di cui si parla in queste settimane che – al di là dei titoli –, tanto più nell’improbabile versione grillina, non è altro che un’indennità di disoccupazione, magari più larga. No, il tema che viene fuori da Vite Ballerine è proprio quello di una misura universale a cui avrebbero diritto tutti. Tutti. Capace di stravolgere il rapporto fra vita, lavoro e non-lavoro, così come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. E forse – conoscendolo – sarà il tema del prossimo libro di Bruno Ugolini.