Ritratto di mamma ribelle nell’India dell’ingiustizia. Un film (anche) italiano a Rotterdam

“A Rifle and a Bag”, il documentaro di Isabella Rinaldi, Cristina Hanes e Arya Rothe presentato al Festival di Rotterdam nella sezione Bright Future. Ambientato in India è la storia di Somi: ex ribelle maoista contro l’ingiustizia di Stato, oggi madre di due figli, che si racconta alla cinepresa. Le registe interrogano il reale e in cambio ottengono il ritratto di un grande personaggio femminile, non una perdente ma un invito vivente alla resistenza…


C’è una donna incinta, Somi. Aspetta il secondo figlio. È sicura che sia femmina: “Quando ho avuto il maschio mi sentivo in un altro modo”, dice.
Prima di lei, però, vediamo un fuoco che brucia: le fiamme si levano alte sullo sfondo della natura indiana. Perché è interamente girato in India A Rifle and a Bag, il documentario presentato in concorso il 26 gennaio al Rotterdam Film Festival, nella sezione Bright Future.

E c’è anche un talento italiano dietro alla sua realizzazione: le tre registe, che compongono il collettivo NoCut, sono Isabella Rinaldi, Cristina Hanes e Arya Rothe. Anche la protagonista è una donna: Somi, ex guerrigliera naxalita, il gruppo ribelle di ispirazione maoista contro il governo indiano (dal villaggio di Naxalbari, in Bengala, dove scoppiò la prima rivolta nel 1967) che ancora oggi combatte per i diritti delle tribù, svilite e discriminate dallo Stato centrale.

Somi però si è arresa. Insieme al marito Pravin, infatti, ha scelto di uscire dalla militanza e presentare una resa ufficiale al governo: in cambio ha ottenuto un piccolo risarcimento e una sistemazione semplice. Lo ha fatto per i figli, per la serenità della famiglia, e forse anche per se stessa: si tratta di una scelta di campo, non perché abbia smesso di contestare le iniquità di Stato – come i suoi antenati prima di lei -, ma perché ha preferito il nido domestico a una vita di opposizione che avrebbe colpito la prole.

Un fucile e una borsa, segnala il titolo del film: un’antitesi, simbolo sia del conflitto che della femminilità qui riunite in una sola figura. Le registe, che sono rispettivamente italiana (Rinaldi), romena (Hanes) e indiana (Rothe), si sono lanciate letteralmente all’inseguimento della storia nel corso del tempo: ottenuta la fiducia del soggetto, sono tornate a più riprese nella zona dell’India rurale per seguirne l’evoluzione, come evidente peraltro dalla cronologia, nella prima parte Somi è incinta e poi vediamo la bambina.

La condizione è complessa: in quanto famiglia di ex naxaliti, infatti, Somi e i suoi cari sono cittadini di terzo grado in una società divisa in caste, e manca proprio il “certificato di casta” per permettere al figlio maggiore di andare a scuola. L’accesso all’istruzione si avvita in un gorgo burocratico senza uscita.

Nell’arco di 89 minuti le registe raccontano la storia affidandosi a inquadrature fisse e piani sequenza che sondano la natura indiana, catturando episodi della vita quotidiana: i bambini, gli animali, la routine di ogni giorno. Non entrano mai in campo: rispettano la materia rappresentata, la trattano pudicamente, non intervengono ma preferiscono interrogare la realtà che parla da sola.
Ecco allora moglie e marito che dialogano tra loro davanti alla cinepresa, i volti rischiarati dal fuoco, e nel frattempo si raccontano attraverso l’evocazione dei fatti passati (si incontrarono proprio nelle fila dei naxaliti) ma anche nelle minuzie del quotidiano, come la difficoltà di gestire i due figli.

Da una parte espongono le ragioni concrete che portano i più deboli all’opposizione, dall’altra tornano al loro intimo: Somi prima va dal medico per controllare la gravidanza, dopo fa il bagno alla figlia neonata, en plein air e in modo quasi ancestrale, in una magnifica ripresa che le autrici riescono a catturare.

Sullo sfondo c’è il mondo intorno, che si fa racconto sociale: il documentario entra in una scuola indiana, guarda i bambini, riprende una classe molto numerosa in cui i piccoli cantano una canzone nazionale sulla grandezza della Madre India. “Chi entrerà nell’esercito?”, chiede il maestro, e tutti alzano la mano.

Alla fine vediamo madre e figlio incastonati nell’ambiente indiano, brullo e bagnato da un fiume, e la donna racconta al bambino la storia dei ribelli come fosse una fiaba: “Eravamo in guerra contro la polizia per aiutare la gente comune – dice -. I poveri dovrebbero governare il Paese, serve la democrazia”. La militanza è una storia da raccontare, tramandata alla prole, ma allo stesso tempo una favola vera che invita al pensiero critico e diventa educazione politica, così i bambini metteranno in dubbio il potere costituito domani.

Rinaldi, Hanes e Rothe portano qui la loro idea di documentario: lontane da molti doc dell’oggi, che tentano di instillare un giudizio in chi guarda di fatto sottovalutandolo, loro si limitano a osservare. La scuola è quella di Wiseman. Catturano il quotidiano, anche l’ovvio e il banale, prendono una storia e la verificano nel tempo, pazienti e tenaci, tornano nello stesso luogo.

Ecco cos’è una ricerca, ecco cos’è un’indagine, fuori dalla velocità del contemporaneo. Con questa peculiare “coproduzione di cervelli”, il film a sei mani tratteggia quindi un memorabile ritratto femminile: una donna inquadrata da donne, e per una volta – senza ricorso a ideologie – la morbidezza nel tocco delle registe sembra influire davvero sul risultato.

Perché A Rifle and a Bag racconta il crepuscolo della militanza, la rinuncia all’idea per amore, l’attivista che sceglie di essere madre malgrado l’ingiustizia resti; ma Somi resta anche un grande personaggio, non certo una perdente, bensì una mamma ribelle che col solo atto di esserci e raccontarsi compone un gesto di resistenza contro lo Stato oppressore.