Scrittori invisibili dell’era Brezhnev. Omaggio a Sergej Dovlatov da un figlio d’arte

In sala dal 4 novembre (con Satine Film) “Dovlatov – I libri invisibili”, bell’affresco d’epoca del figlio d’arte Aleksej German Jr. Negli anni del gelo brezneviano la “sbiadita” scena artistica di Leningrado fa da sfondo ad uno stralcio della vita di Sergej Dovlatov, scrittore censurato dal regime e tra i più letti del XX secolo (tradotto in Italia da Sellerio). Con lui tanti altri artisti “cancellati” dal potere, storia ben nota alla famiglia German. Orso d’argento alla Berlinale 2018 e passato al Torino filmfest …

La scena artistica e letteraria della Leningrado anni ’70. Gli anni del “gelo” brezneviano, seguiti al “disgelo” dei ’60. Quelli della “stagnazione”, dell’opprimente regime culturale imposto a intellettuali ed artisti a costo della loro emarginazione, della mancata pubblicazione dei loro scritti, dell’impossibilità di esporre le loro opere. Quello che ha segnato, tra gli altri, l’esistenza di Sergej Donatovič Dovlatov (1941-1990), uno degli scrittori russi più letti del XX secolo (tradotto in Italia da Sellerio), scomparso negli Usa neanche cinquantenne, totalmente ignaro del successo che il destino gli avrebbe regalato post mortem.

È a lui, ma soprattutto a quegli artisti “silenziati” dal regime in quegli anni che il regista Aleksej German Jr., dedica questo bell’affresco, già Orso d’argento alla Berlinale 2018, designato film della critica dal SNCCI ed ora finalmente in sala con Satine Film.

 

È Dovlatov – I libri invisibili, non un biopic tradizionale, ma anzi un affascinante viaggio attraverso un’epoca, i suoi protagonisti “rimossi”, l’estenuante e feroce censura ben nota al regista che, figlio d’arte, ha conosciuto in famiglia: suo padre il grande Aleksej Jurevic German, a sua volta figlio di un grande scrittore  amico di Mejerchol’d, ha visto proibire per anni i suoi film (Controllo sulle strade e Il mio amico Ivan Lapsin da una novella del padre, diventano un caso).

È dunque anche un ritratto di famiglia questo Dovlatov – I libri invisibili. Dove drammi e lacrime, però, German Jr. sa rendere al meglio attraverso la lente sottile dell’ironia, capace di demolire ogni retorica, con sensibile e raffinato sguardo d’autore. Stesse qualità, del resto, che hanno reso speciali le pagine di Dovlatov, conosciute da noi a partire dagli anni ’90, nelle traduzioni di Laura Salmon per Sellerio. “Forse nessuno meglio di lui è riuscito a raccontare l’Homo sovieticus – scrive la curatrice – , i caratteri essenziali degli ultimi decenni del comunismo prima della caduta, quando il regime era diventato soprattutto il regno della stupidità. E chissà quali vette d’umorismo avrebbe raggiunto se avesse potuto descrivere le sue trasformazioni successive”.

Con quella sua capacità magistrale di coniugare tragico e comico di cui dà prova da subito in quella commedia autobiografica che è Il libro invisibile, in cui narra appunto le impossibili imprese per essere pubblicato nell’Unione Sovietica di fine corsa.

Fa sorridere, infatti, il Dovlatov di German, col volto di Milan Maric. Fa sorridere quando in sogno gli appare Brezhnev, affiancato da Fidel che lo invita a scrivere un libro insieme. Fa sorridere quando la mamma gli ricorda che suo nonno sognava Stalin e aveva paura di addormentarsi. E fa sorridere, ma stavolta solo in principio, quando scopre che i libri non pubblicati finiscono come carta da riciclo per le scuole.

In quel cortile pieno di neve e pacchi di “carta straccia” il regista di Paper Soldier colpisce al cuore fotografando il dramma universale di ogni artista imbavagliato dal potere. I Nabokov o i Solženicyn venduti al mercato nero. O lo stesso Iosif Brodskij, poeta da Nobel riparato anche lui negli Usa, qui costretto per vivere a doppiare le poesie polacche nei film.

Ed è proprio questo doppio binario narrativo a rendere potente il lavoro di German jr. Un biopic fuori dalle convenzioni, dicevamo. Che racchiude l’intera vita di Dovlatov in una settimana. Solo sette giorni ma “esemplari”, in una Leningrado – la stessa dei German – gelida, “sbiadita”, dove Sergej si aggira spettrale a sua volta, vagando tra scrostate abitazioni di artisti, pittori, scrittori, poeti (ma il gioco del chi è chi varrà solo per il pubblico russo), invisibili come lui.

Incontri fugaci con la moglie da cui è separato, con la figlia che sogna una bambola tedesca – tormentone del film – che non può comprarle. O ancora continui tentativi al sindacato scrittori dove riceve soltanto secchi e ripetuti niet. O peggio tiepide aperture a costo di piegarsi agli standard letterari del regime: personaggi eroici e storie positive al posto dei suoi racconti di “cose inutili”.

Per vivere Dovlatov scrive per la rivista del cantiere navale. Ed è su quella banchina dove si apre e si chiude il film che German tira giù il suo poker d’assi: una passerella da circo di improbabili attori nei panni di Puskin, Tolstoj, Gogol, Dostoevskij, il gotha stesso della letteratura russa, chiamato qui a raccolta per un film di propaganda che celebri il valore della cultura sovietica improntata alla rettitudine morale e ai sani principi del socialismo.

Quali saranno i toni dell’articolo di Sergej, invece, potete immaginarlo. E pure la reazione del suo caporedattore quando lo avrà letto, soprattutto quando Dovlatov non accetterà di cambiarlo. “Sai quanto coraggio ci vuole a non essere nessuno pur restando se stessi” gli ricorda l’attrice declassata a comparsa sullo stesso set. Un coraggio che Sergej Dovlatov ha conservato fino alla fine.