Se “Il tempo delle mele” cerca la strada del realismo. I gemelli francesi Boukherma non stupiscono Venezia

Passato in concorso “Leurs enfants après eux” dei gemelli francesi Ludovic e Zoran Boukherma, dall’omonimo fortunato romanzo di Nicolas Mathieu (pubblicato in Italia da Marsilio). Siamo negli anni Novanta (nel 1992 sono nati i registi) nell’Est della Francia che vive la dismissione apocalittica dell’industria metallurgica. La noia e la mancanza di prospettive di tre adolescenti, in un racconto generazionale irrisolto e senza originalità …

Quest’anno alla Mostra di Venezia va la coppia. Intesa come coppia di registi: ce ne sono talmente tante che viene lunga fare un elenco anche solo indicativo di tutti i film co-diretti. Se i Taviani, i Dardenne o i D’Innocenzo ci sembravano una sparuta e insolita minoranza oggi sembra che il trend sia in rapida crescita. Il perché non si sa, ma non è importante.

E comunque. Tra questi film “di coppia” visti al Lido c’è il francese Leurs enfants après eux che i gemelli trentaduenni, Ludovic e Zoran Boukherma (qui al 4° flm dopo, tra gi altri, un horror licantropico, Teddy e una shark-comedy, L’année du requin) hanno adattato dall’omonimo romanzo di Nicolas Mathieu, E i figli dopo di loro, bestseller in Francia e vincitore del Prix Goncourt nel 2018, pubblicato in Italia da Marsilio.

Somewhere in Lorena, Est della Francia, tra i Vosgi e la Mosella, negli anni ‘90 della de-industrializzazione metallurgica, si snoda il racconto dell’adolescenza di Anthony. Da quattordicenne brufoloso nel ’92, e di due anni in due anni fino al ’98, si snocciola il catalogo generazionale completo fatto di noia, ribellione, videogame, canne, innamoramenti, scazzottate e casini vari.

Nella piccola provincia stagnante che non offre vie di fuga, la vita di Anthony (Paul Kircher) inciampa, per colpa di una moto, in quella del coetaneo Hacine (Sayyid El Alami), anche lui figlio di un ex operaio siderurgico venuto dal Marocco, e di Steph (Angelina Woreth), ragazza che invece proviene dai piani alti della società locale ma non per questo è meno annoiata e irrisolta.

Nel corso di quattro estati i loro destini si intrecciano e si scontrano per formare il ritratto di una generazione post-industriale perduta “i cui sogni di un destino diverso da quello dei loro genitori probabilmente non si avvereranno”. Così riassumono in un’intervista i due registi gemelli, e tuttavia, dopo aver visto il film viene da chiedersi: Sogni che non si avvereranno? Quali sogni?

Per tutto il film non c’è un momento nel quale Anthony esprima un desiderio di qualsiasi genere, nemmeno quello di vincere l’acne, protagonista assoluta di tutti i primi piani (tanti, troppi), che cala solo un po’ verso la fine del film per darci il senso degli anni trascorsi.

Il teen movie che vuol essere anche racconto generazionale non è una novità né al cinema né in letteratura; non c’è nulla di nuovo sotto il sole in questi lunghissimi e presuntuosi 144’ minuti di una pellicola che vorrebbe essere Rohmer (o anche solo un po’ Ozon), a tratti anche il Kassovitz regista de L’odio, ma in finale non riesce neanche ad essere un Pinoteau, quello de Il tempo delle mele.

Dfficile trovare un appiglio di interesse per un film che si prende troppo sul serio senza saper raccontare. Troppi gli stereotipi e i luoghi comuni attorno ad un’idea di gioventù più o meno bruciata che sembra ogni volta pronta a sfociare in tragedia, e invece si limita a lasciarsi scivolare in avanti .

Un siparietto di involontaria comicità mostra il delinquente del paese, al quale Anthony e il cugino chiedono aiuto (per una questione che non sveliamo) come una via di mezzo tra il più allucinato Robert Carlyle/Begbie di Trainspotting e un qualsiasi psicopatico tarantiniano. La colonna sonora, scontata, sembra una compilation de I migliori anni della nostra vita tirata su dal cestone dell’autogrill col lampadatissimo Carlo Conti in copertina. Siamo nel ’92, e allora ecco un po’ di grunge, c’è una scena un po’ violenta ed ecco I Will Survive, e sotto ai titoli di coda echeggia didascalica anche Born to Run di Springsteen.

Forse sarebbe stato diverso se, attraverso gli occhi dei protagonisti si fosse indugiato maggiormente sull’ambiente, sul contesto; su Heillange, la cittadina vera o immaginaria che sembra separata dal mondo, più passiva e rassegnata che recalcitrante alle trasformazioni e ai cambiamenti della postmodernità e della globalizzazione. Nel libro il trauma di questa dismissione apocalittica viene raccontato non dalla voce dei protagonisti adulti di quella drammatica vicenda, bensì attraverso gli occhi dei figli, adolescenti cresciuti all’ombra degli scheletri arrugginiti della fabbrica che segnano lo skyline della zona. Strutture metaforiche del sentimento diffuso e rassegnato di sconfitta dei padri, che sembrano conservare o si illudono di conservare ancora una sembianza di dignità.

La fabbrica che un tempo era il destino delle famiglie del villaggio ha chiuso i battenti e quel posto fisso garantito per i figli, come per diritto di successione, non c’è più. Come non c’è una possibilità di immaginare un’alternativa.
Un paese in cui le cose sembra che accadano solo perché devono accadere, dove lo scorrere del tempo è un loop indifferenziato con Antony, Hacine, Steph, genitori e concittadini a fare da figurine nel desolato presepe. È di questo che parla il romanzo di Nicolas Mathieu. È  di questo che non parla il film.