Sogno di un festival di fine estate a San Sebastian. Le cartoline di Woody Allen ai suoi maestri

In sala dal 6 maggio (per Vision Distribution) “Rifkin’s Festival” il nuovo film di Woody Allen (stavolta frutto di una coproduzione Spagna-Francia-Italia con Wildside) presentato allo scorso festival di San Sebastian dove è ambientato interamente. Non la solita cartolina da… ma una nuova (anche esilarante) dichiarazione d’amore per i maestri del cinema europeo, con buona pace per i “nuovi fenomeni” modaioli di quello contemporaneo, osannati da una stampa sempre più senza qualità. Tornare in sala col vecchio Woody, questo vecchio Woody, vi regalerà l’attimo perfetto …

 

Che bello tornare al cinema dopo mesi e mesi di forzata astinenza. Il piacere è tale che va ben oltre le capacità descrittive: amici cari due poltrone più in là, le luci che si abbassano fino al buio in sala… e se poi ad accogliere il ritorno è Rifkin’s Festival, il nuovo film di Woody Allen, siamo dalle parti della promessa di un attimo perfetto.

Una volta spente le luci ecco materializzarsi un nuovo capitolo della serie “commissionata dalla pro-loco”. Questo è il modo scherzoso col quale, tra amici, avevamo definito i precedenti film-omaggio di Allen a luoghi che non fossero New York, dei quali si mostrano gli scorci più suggestivi, in ottica turista-americano-colto-e-abbiente, pigiando sapientemente il freno per evitare l’oleografia in agguato.

E così, dopo Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris e To Rome with Love, la cartolina di turno fotografata da Vittorio Storaro, not pizza and figs, è dedicata a San Sebastian o Donostia, come rivendicano i locali, nei giorni del festival cinematografico.

L’ambientazione in terra basca, però, è l’occasione che Woody Allen coglie per affermare ancora una volta il suo amore per il cinema e, in particolare per il cinema europeo. È il Woody che da sempre amiamo e del quale non siamo mai stanchi. Ancora e ancora.

In Rifkin’s Festival ci sono tutti gli ingredienti che ci hanno indotto dipendenza: il tocco leggero, l’ironia, il sarcasmo, l’amore per il cinema. C’è anche l’immancabile psicologo, quindi c’è un protagonista nevrotico, ci sono le donne e i rapporti problematici derivanti… lo stesso adorabile film di sempre, l’abbiamo già detto?

Mort Rifkin (Wallace Shawn, uno dei caratteristi più buffi e ricorrenti della compagnia stabile di Woody Allen, qui promosso a protagonista-alter ego) e la moglie Sue (Gina Gershon) sono una coppia stanca: lui anziano professore di cinema e aspirante scrittore in crisi di lunga durata perché “è inutile scrivere se il lavoro finito non sarà al livello di Dostoevskij” mentre lei è l’addetta stampa di Philippe (Louis Garrel), un giovane fascinoso e pompato regista francese sulla cresta dell’onda. Personaggio di rara presunzione, narcisismo e vacuità, che snocciola con tono trasognato.

Mort, è al Festival “per tenere d’occhio la moglie che si sta prendendo un po’ troppa cura del suo cliente”. La noia che viene dall’essere a San Sebastian controvoglia e l’ipocondria lo portano ad incontrare la cardiologa Jo (Elena Anaya) dalla quale viene accompagnato nei luoghi più suggestivi della città e dei dintorni, illuminati da una luce dorata indimenticabile. Per inciso, qualcuno avrebbe preferito la luce naturale della città sul Golfo di Biscaglia trovando da ridire circa la “doratura turistica” di Storaro.

Sia come sia, le inquadrature della scogliera museo a cielo aperto delle opere di Eduardo Chillida, le sculture religiose meravigliosamente splatter della Passione di Cristo, le palme, le piazze, i mercatini e i tavolini dei bar sono l’occasione per una flânerie per testo e immagini e infliggono allo spettatore uno struggente e doloroso desiderio di viaggio che fino a chissà quando si dovrà reprimere (sospiro).

In tutto questo, però, il film è anche un omaggio al festival basco, così come Brian De Palma fece per Cannes nel 2002 con Femme Fatale (2002), solo che qui nessuno deruba nessuno nella toilette.

È anzi un escamotage col quale il regista rende omaggio, una volta di più, ai propri autori di culto (Fellini, Godard, Welles, Truffaut, Buñuel, Bergman) e al cinema europeo che lo ha formato. L’espediente di far arrivare in sogno al protagonista scene dai film dei Maestri con i dialoghi riscritti ad uso e consumo dell’inconscio di Mort è un autocitazione esilarante.

La pellicola, inoltre, consente all’ottantenne Woody Allen di affermare che il cinema è cambiato e che c’è qualcosa di ineluttabile in questo ma, nel contempo, pare non avere gran stima per i successori e lo fa rendendo detestabile Philippe (e come ciliegina sulla torta lo fa pure suonatore di bonghi in un irresistibile siparietto latin-jazz).

È imbarazzante la conferenza stampa nella quale il regista francese, chiaramente una metafora di certi nuovi “fenomeni”, parlando del suo prossimo lavoro con l’aria studiata di chi pensa di calare l’asso, dichiara che il suo film contribuirà efficacemente a trovare la soluzione per la pace tra israeliani e palestinesi (!). Mentre i giornalisti adoranti pendono dalle sue labbra, a segnalare senza mezzi termini la pochezza della categoria.

A pensarci bene è una gran fortuna poter contare sul salvifico disincanto di Woody Allen: in uno dei sogni, un rabbino rimprovera Mort per non essere abbastanza devoto e gli chiede cosa direbbe a Dio se lo incontrasse: “Dio? Dopo tutto quello che ha fatto, dovrebbe parlare con il mio avvocato “. Che la battuta si riferisca ai massimi sistemi o alla recente biografia del regista (o entrambe le cose) poco importa. Woody è vivo e lotta insieme a noi!
Uscendo dal cinema, sorge spontanea un’ unica domanda: “Perché Woody Allen fa solo un film all’anno?”.