“Storie d’Africa”, l’antidoto all’orrore. Il doc di Piero Cannizzaro al festival di Addis Abeba

Torna in Africa da dove è partito “Storie d’africa” di Piero Cannizzaro. Il 19 maggio, infatti, sarà proiettato come film di chiusura della 18° edizione dell’AIFF – Addis International Film Festival, il maggior festival indipendente del cinema documentario in Africa, dedicato ai diritti umani che fa capo  all’Human Rights Film Network. Girato tra Senegal, Costa d’Avorio e Guinea il doc racconta l’emigrazione dal punto di vista di chi l’ha provata sulla sua pelle (attraversamenti di mari e deserti, prigionia, stupri) ed è riuscito a tornare indietro. L’obiettivo dichiarato del film è provare a fermare chi vorrebbe partire. In questo senso un piccolo antidoto all’orrore. Mentre l’Europa, però, spende miliardi di euro per la “difesa dei confini” piuttosto che nei progetti di sviluppo in Africa…

Cos’è Storie d’Africa? Forse una cosa sopra alle altre: un piccolo antidoto all’orrore. Meglio: all’assuefazione all’orrore. Quello disegnato spesso quasi solo dai numeri, dalle cifre: cinquecento morti nel Mediterraneo da gennaio ad agosto di quest’anno, quarantamila (ma non si sa con certezza) detenuti nei lager libici. L’orrore, insomma, che accompagna i tentativi di migrazione dall’Africa all’Europa, dal vecchio al nuovo continente.

Antidoto, dunque, tentativo di antidoto. Perché il documentario di Piero Cannizzaro – appunto Storie d’Africa, finanziato dalla cooperazione internazionale italiana in collaborazione con l’Oim, l’organizzazione per le migrazioni – in cinquantacinque minuti prova a fornire un angolo di visuale diverso dal solito. Molto diverso.

Diverso anche dalle tante denunce che pure sono state prodotte sul tema. Perché qui, in questo documentario, parlano e raccontano gli ultimi degli ultimi degli ultimi. Parla, insomma, chi ha provato ad attraversare i deserti o il mare e non ce l’ha fatta. È stato rinchiuso, picchiato. Violentato dai trafficanti. Ed è riuscito a tornare indietro.

Storie che lasciano senza parole, storie – come si direbbe con un pizzico di retorica ma stavolta con un’espressione calzante – che non permettono più l’indifferenza. Storie che i protagonisti di quei tentativi hanno scelto di raccontare. Non solo davanti alle telecamere della troupe ma pubblicamente. In giro, nei villaggi, nelle comunità, nelle città del Senegal, della Costa d’Avorio, della Guinea. Racconti anche in musica, come fa uno dei ragazzi intervistati nel film.

Con un obbiettivo dichiarato: provare a fermare chi vorrebbe partire.
Ma questa – se così si può dire – è la parte del film che riesce meno. E non perché le storie non siano spaventose, agghiaccianti. Ma perché come dice un altro ragazzo che sforna il pane in un villaggio senegalese: “So, so tutto. Ho capito la violenza che accompagna questi viaggi. Ma credo che ci proverò lo stesso. Qui non c’è nulla”.

Le storie – raccontate seguendo il progetto “CinemArena”, un convoglio itinerante che monta palchi e schermi nei villaggi e nelle città, lasciando spazio alle parole dei protagonisti e a tanta musica-; le storie – si diceva – raccontano però che a volte il nulla, quel “nulla” a cui si riferiva il ragazzo senegalese, è comunque preferibile alle tragedie.

In questi 55 minuti di immagini ed interviste, c’è l’uomo, anche lui senegalese, che racconta dei morti nel deserto, quel deserto nel Mali dove “non può esistere solidarietà”. Dove non puoi più pensare ad altri. E c’è quell’altro capofamiglia della Costa d’Avorio che fa venire i brividi: racconta di quando viene preso dalle milizie, nonostante il pagamento di una tangente. Milizie che violenteranno la moglie davanti al loro figlio. “Ma lei non deve farsene una colpa – aggiunge – la colpa è solo mia che li ho portati in questo viaggio”.

La paura, il ricordo di quei momenti terribili, il senso di colpa rischiano così di offuscare i veri responsabili di questi orrori, i trafficanti di uomini. Non comunque nelle parole della ragazza della Costa d’Avorio. Che aveva un unico sogno: studiare in Europa. Il trafficante con cui aveva un accordo, però, invece di portarla in Italia o Spagna, l’ha portata in una casa chiusa. In un paese del Maghreb. L‘aveva venduta. Costretta a prostituirsi, messa in cinta, è riuscita a liberarsi chiedendo alla famiglia i soldi del riscatto.

Ora è tornata a casa, con una madre che l’accudisce. Con lo stesso sogno che aveva anni fa ma con un incubo alle spalle. Lei non ripartirebbe ma sa che la colpa di quel che ha passato è solo di quegli uomini, di quei trafficanti.

Meglio il nulla, si diceva. E meglio ancora se si prova a costruire qualcosa oltre il nulla. È il caso di un agricoltore che ha tentato la traversata del Mediterraneo. Ha visto morire affogato un suo amico ed un suo parente. E racconta un particolare incredibile: “Nei sette giorni in mare, senza acqua, senza cibo, la cosa più feroce era l’odore del motore e dell’acqua marina. Insopportabile. Alcuni non ce l’hanno fatta a sopportare quell’odore e si sono buttati”.

Lui ce la fece ad arrivare in Spagna. Ma una volta sbarcato è stato preso, rinchiuso e rispedito al suo paese. Ora sta provando a fare qualcosa lì, assieme ad altri ha avviato una fattoria. Coltivano campi con sementi selezionate, diverse da stagione a stagione. Ma hanno bisogno di tante cose, hanno bisogno quasi di tutto. “Basterebbe che ci aiutassero con un piccolo investimento e potremmo dare lavoro a molti”.

Basterebbe. Condizionale. Gli aiuti sono arrivati, qualcuno è stato in grado di ricostruirsi casa, il film lo testimonia. Ma il quadro generale è diverso. Perché – come sanno tutti – l’Europa, il sogno, la meta di tutte le persone del documentario, ha speso e spenderà per i prossimi anni più miliardi di euro per la “difesa dei confini” che non per progetti di sviluppo in Africa.